शिवताण्डवस्तोत्र

Him3ros → शिव (2°PG)

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    - I -




    Nei tempi antichi il mondo era informe.
    Io c'ero. L'ho visto. L'ho amato.
    Esistevo già quando gli elementi vennero sottratti al disordine per trovare una precisa collocazione, aggregandosi attraverso le impercettibili impalcature erette dai Protogenoi.
    Ero parte di tutto questo. Osservavo, senza agire, poiché il mio compito non era quello di creare.
    Vidi il Cosmo tutto, al suo primo vagito, contratto in un embrione che aveva in sé ogni forma e ogni colore potenziale. Provavo qualcosa di strano dentro di me, qualcosa di nuovo come erano nuove tutte le emozioni. Molto tempo dopo imparai che si trattava di curiosità.
    Osservavo in silenzio mentre le masse plasmatiche si raffreddavano fino a permettermi di individuare uno schema preciso negli eventi e nelle profonde meccaniche degli universi. Non c'era componente tanto piccola da risultare inutile ai miei occhi. Amavo osservare la danza frenetica che sosteneva l'apparente immobilità della materia.
    Anche io volevo danzare. Non capivo che avrei potuto farlo, se soltanto ci avessi provato. Non era importante. Non ero fatto per sperimentare quel tipo di intuizioni. Non ero fatto nemmeno specificamente per la "curiosità", eppure qualche scintilla collaterale nel fuoco che ardeva dentro di me desiderava vedere. Mi commuovevo nell'ammirare tutta quell'oscena complessità farsi semplice.

    Mi commuovo perfino ora, mentre la mia essenza viene devastata da questo piccolo, stupendo quanto di luce.





















    Il mondo è tornato a essere informe.
    Io sono informe.
    Sono perduto. Sono inesistente.
    Non ho alcuna collocazione nel sistema. Sono oltre. Non c'è alcun sistema qui. Non esiste "qui". Non esiste "io". Non esisto perché non posso esistere. Nulla può esistere. Manca l'Ordine. Manca il Caos. Non ci sono le condizioni fondamentali per rendere possibile l'atto ontologico di esistere.

    Allora perché penso?
    Cosa sono? Posso davvero mantenere un filo conduttore nella mia coscienza pur rimanendo "nulla"? Perché non sono scomparso? Perché posso concepire me stesso come entità separata dal nulla?
    Qualcosa si agita. Un vuoto diverso da quello che mi circonda. Il vuoto lasciato da qualcosa che esisteva. Un'ombra. Un ricordo. Una consapevolezza. Non ha senso, nulla di tutto ciò ha senso. Solo il nulla ha senso.

    Esisto. O sono esistito. Una parte di me continua a ricordare quello stadio di esistenza e perciò esiste. Permane.
    Io sono. L'atto di profonda conoscenza che ancora il mio volere in mancanza di forma è stato raggiunto infiniti eoni fa, nel momento in cui la mia essenza si separò tramite l'Atman, essa era già in grado di trascendere qualsiasi tramite o momento, affermando sé stessa ed elevandosi oltre i suoi stessi limiti per sublimare la relazione tra l'uno e il tutto. Venni creato per potermi conoscere, mi conobbi per poter essere creato e inserito nel ciclo dell'esistenza e poi in quello della Realtà.

    Ora sono. Continuo a essere. La mia essenza è inconoscibile a sé stessa, perduta nell'impossibilità di confrontarsi col Tutto, poiché in questo stato sono separato dal Tutto. Sono un errore. Sono uno scarto. Sono il singolo valore mancante in un codice infinito che si sviluppa attraverso tutti i tempi e tutti gli spazi. Non possiedo forma, la mia essenza è ripiegata su sé stessa, collassata in un solo punto adimensionale che fonda la sua non-esistenza sull'intreccio di illimitati strati di esistenza, senza mai poterne far parte.

    Sussisto, privo di qualunque potere.
    Privo di qualsiasi possibilità.
    Vuoto.

    Ero immenso. Ora sono insignificante.
    È la mia condanna. L'ho accettata nel momento stesso in cui ho cessato di esistere. E poi nessun momento successivo ha più avuto senso. Non ha senso parlare di "momento". Nulla ha senso. Nulla. La mia stessa esistenza è uno scherno a tutto ciò che di sacro incarnavamo. Perché? Perché i miei fratelli non sono qui con me? Perché sono solo? Perché posso rendermi conto di esserlo? La nostra colpa non era forse la stessa? Sciocchi, incapaci, tanto quanto gli abomini che tentavamo di combattere, imitandoli. Abbiamo sottovalutato la nostra stessa bravura, temuto il nostro successo e infine...

    Sono davvero qui?

    Nel nulla, io sento. Sento. So. So di esistere.
    Sono consapevole. Da quanto tempo non avveniva? Quanto a lungo mi sono limitato a perdurare senza sapere nulla al di fuori di ciò? Non importa. La mia essenza eterna rifiuta lo scorrere del tempo. È divenuto importante soltanto per me e solo... ora? Ora, è fondamentale. Perché esiste "ora".
    Variazioni di pensiero, sinonimo della rottura di una staticità ormai intrinseca nel mio essere.
    Sensazioni? Informazioni? La natura stessa delle mie domande mi disarma, mi spinge alla sciocca pratica di inseguire ogni idea, ogni guizzo di vita che attraversa i miei sistemi costitutivi.
    Perché mi è possibile un simile atto? Cosa è cambiato?.

    Fuoco.
    Tutto è cambiato col fuoco. Con la luce. Frammenti di materia che hanno contaminato l'assenza assoluta della mia prigione. Li ho riconosciuti con nostalgia. Possibile che proprio l'antico nemico abbia permesso tutto questo?
    Un dardo ammantato dalle fiamme. Nella sua scia ho sentito. Nella sua scia ho capito.

    io sono





    Edited by Him3ros - 1/3/2024, 22:35
     
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    - II -




    L'incedere del dio spaventò i deboli spiriti e gli umani con le vesti colorate.
    I suoi piedi nudi colpivano la pietra levigata con un rintocco metallico. La veste fluttuava all'aria della giovane sera, salutando il sole dall'immensa arcata che dava a ovest. La luce si colorava di un rosso sempre più intenso, riflettendosi sulla pelle screziata di ceneri bianche.
    Presto, sotto i suoi occhi, la luce si esaurì per lasciare il posto al crepuscolo.

    Che disegno curioso. - pensò Mahadeva.

    I millenni passati ad ammirare l'alternanza tra giorno e notte ancora non erano riusciti ad abituarlo. Gli sfuggiva il mistero fondamentale, non capiva come facesse la stella a condizionare la natura in un modo così radicale. Gli sembrava banale e geniale insieme. Scontato e complesso. Come potevano giorno e notte sembrare così diversi, pur rimanendo in sostanza la stessa cosa?
    Era così immerso nella contemplazione del tempo da dimenticarne lo scorrere.
    Il suo spirito si stava ancora beando della mite delicatezza del crepuscolo, quando il primo raggio di luce squarciò la cortina della notte, alterando in modo simile e opposto le ombre e le tinte del palazzo. Con un frammento della sua immensa coscienza prese a ponderare non su quel singolo evento, ma sul significato di cambiamento in sé.
    Cambiamento, variazione. Il suo ruolo era cambiato tante volte. Lui si era saputo accettare in ciascuna delle sue missioni, a differenza di molti suoi simili, caduti in disgrazia o plagiati dalla promessa di un ritorno alla perfezione. Deboli, uno più dell'altro.
    Le linee che componevano la sua mano gli parvero improvvisamente troppo strette. Pesanti. Un pensiero insensato, doveva riconoscerlo: i principi primi della materia nella sua concezione più pura erano stati legati e temprati nella sua essenza affinché si fondessero nella forma perfetta, concretizzandosi in un ricettacolo che non solo lo ospitasse, ma che fosse anche parte della sua grandezza.
    Le dita si chiusero appena, mostrando le peculiarità del tessuto che le ricopriva. Pieghe e avvallamenti si formarono sul palmo della mano, adattandosi alle strutture che permettevano i movimenti degli arti.
    Non aveva sempre avuto quella forma. Anche in quello era cambiato, come erano cambiati i suoi fratelli, appagando uno strano desiderio di comprensione e curiosità. Avevano scelto di far parte di un progetto differente, opposto agli eoni di guerra che li avevano visti protagonisti. Avevano perso la guerra, arrendendosi per il bene del Multiverso, e quelli erano i risultati.
    Pensando a quella conclusione degli eventi, Mahadeva non provava sentimenti particolari. Aveva avuto occasione di esercitare il suo potere su scale talmente immense che perfino a lui risultavano talvolta eccessive. Aveva dato sfogo alla sua natura e al suo spirito portando la distruzione, cancellando migliaia di pianeti. Aveva massacrato milioni e milioni di armi mutanti create dai Titani.

    Eppure era lì, sulla Terra, a mischiarsi con gli esperimenti genetici dei Signori dell'Universo e facendosi chiamare "dio".
    Avevano abbandonato i sembianti della trascendenza angelica in favore di quei semplici corpi stranamente proporzionati, creature con un naso e una bocca.

    Le labbra perfettamente definite del Grande Signore si stirarono. Un sorriso. Questo era il nome dell'atto. Un vecchio eremita cieco gli aveva trasmesso quella nozione molti cicli prima. L'aveva incontrato in uno dei suoi vagabondaggi, nei pressi di un villaggio ai piedi della montagna. Era entrato nell'ampia caverna dietro alla cascata, un luogo che molti tra gli abitanti camminavano e qualcuno perfino temeva, curiosamente. Non vi aveva trovato alcun mostro, bensì un vecchio rugoso, con capelli incolti e una lunghissima barba, le cui ossa erano ben visibili al di sotto della pelle sottile e macchiata.
    L'uomo non si ritrasse alla sua presenza come facevano tutti, né sgranò gli occhi. Mahadeva pensava che quella mancanza di reazione fosse dovuta all'evidente cecità dell'uomo, ma si ricredette rapidamente quando questi lo appellò con i suoi divini nomi. Parlarono a lungo, entrambi facendo tante domande sulle cose più disparate, conversando di pietra e cielo, di aquila e topo, di corpo e anima, finché l'umano non aveva supplicato il dio di lasciarlo dormire soltanto per poche ore.

    La curiosità più bruciante del dio era tuttavia relativa all'uomo stesso. Con una grande pazienza, il mortale aveva passato giorni interi a mostrare in che modo i movimenti dei suoi muscoli facciali si allineassero e mutassero in base all'emozione che voleva esprimere. Gli aveva fatto notare i cambiamenti di tono associati all'umore.
    Per la prima volta, ascoltando la lezione come il più umile degli allievi, Mahadeva si rese conto che non aveva davanti un animale come tanti altri.
    Apprese molto, ascoltando l'umano. Capì moltissime cose che non aveva mai avuto occasione di realizzare. A ogni nuova alba si presentava sul fianco della montagna, violando l'isolamento dell'uomo e imponendo la sua presenza nella caverna.
    La più grande rivelazione fu scoprire l'effettiva complessità del carattere e della sfera emotiva umana.
    Rabbia, gioia, paura, stupore... anche lui provava cose simili. Tutti loro le provavano, in qualche misura, ma le interpretavano in modo diverso. Non le esternavano, facendo emergere solo la loro direttiva primaria, l'ordine che gli Eoni e i Protogenoi avevano intessuto nella loro essenza.

    In cambio di questa possibilità di comprensione, il dio aveva elargito il suo più grande dono al vecchio, insegnandogli i segreti del mondo spirituale. Ben poco poteva dirgli del rapporto tra anima e corpo, una fusione che gli Uranidi avevano realizzato solo grazie al loro legame con la materia; invece gli mostrò come entrare in comunione col proprio io interiore, come abbracciarne la forza e magnificarla.
    Vedeva l'eremita piangere di gioia e dolore per tutte le cose che finalmente riusciva a sfiorare, raccogliendo perle di bellezza e sofferenza prima per lui inimmaginabili. Camminarono persino fianco a fianco attraverso il piano che attraversava l'anima di Mahayogin e il dio teneva l'uomo per mano affinché non si perdesse nella sua stessa immensità.
    Quando tornarono da quel viaggio, l'uomo gli chiese tempo. Tempo per riflettere, per imparare e assorbire tanta grandezza.

    Per lunghi anni, dopo essersi congedato, anche Mahadeva si era sforzato di meditare sulle loro differenze, fino a comprenderle nella pienezza del suo spirito. Le aveva abbracciate, amate.
    Così, proprio con un sorriso, si era presentato nuovamente all'entrata della dimora naturale.
    Il corpo del vecchio si era fatto secco e leggero. Nessun alito muoveva i lunghi peli della barba bianca. Era immobile, le gambe ancora incrociate e la schiena lievemente più curva del solito, ma privo di qualsiasi scintilla.
    Esisteva ancora, ma allo stesso tempo non esisteva più. Il sorriso era svanito dal volto del dio, proprio come la vita era svanita dall'eremita.

    Come tante altre volte, egli prese posto di fronte all'umano, mimandone la postura. Tutti e tre gli occhi si chiusero, cancellando la scena dalla sua vista. E fece esattamente ciò che aveva insegnato a lui.
    Infinite esistenze lo sfiorarono, cullando il suo immenso spirito in un tocco simile al vento e alla luce delle stelle.
    Cercò il vecchio, il colore delicato della sua anima. Lo cercò per un tempo che parve lungo persino a lui, visitando tutti i reami che fosse in suo potere raggiungere. Quando lo trovò, ormai il colore era sbiadito. Pallido. Acerbo.
    Un minuscolo umano dai capelli neri fissava il volto perfetto del grande dio.
    Sorridevano entrambi, il dio e il bambino.

    -


    Il ricordo gli scivolò addosso, tornando nel profondo del suo animo.
    Dopo ore di immobilità tornò a muoversi, aprendo le braccia in direzione del Sole ormai quasi alto nel cielo.
    Un'immensa ondata di pura energia di innalzò dal centro del palazzo, facendo vibrare a una frequenza vertiginosa le barriere contenitive.

    Era il giorno.


     
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    - III -




    Le arcate si levavano alte e aggraziate, dando al contempo impressione di forza e leggerezza. Le decorazioni accentuavano gli stessi aspetti, aggiungendo a ogni superficie un senso di complessa grandiosità e opulenza. I dettagli si perdevano nel disegno totale, ma erano tanto più intricati quanto più ci si avvicinava a osservarli. La città aveva una forma simmetrica che ne rifletteva l'ordine celeste. La pietra bianca purissima che la costituiva era una materia raffinata impossibile da reperire sul pianeta, a metà tra roccia e metallo, lavorata con un controllo perfetto dai suoi fratelli in modo che non esistessero crepe o saldature, come se avessero scolpito e cesellato un unico blocco di materia solida.

    Le proporzioni del palazzo erano totalmente assurde per una scala umana.
    Mahadeva non amava particolarmente quelle trivialità. Al contrario di moltissimi dei suoi fratelli non era solito manifestarsi con fattezze colossali tra i suoi sudditi. Il mondo si sarebbe spaccato sotto i suoi piedi, se solo avesse desiderato esprimere con grandezze fisiche concrete il potere che celava nella sua essenza.
    Quando si mostrava ai mortali tendeva a sovrastarli comunque in altezza, ma non lo faceva per desiderio o per ricordare ai suoi sudditi chi egli fosse veramente. Si trattava invece di un'abitudine, nata svariati millenni prima, quando Trimurti aveva deciso di prendere potere su quel pianeta così importante per le meccaniche superne, per vendicarsi un giorno degli immondi figli di Gea e Urano.

    -


    In quel tempo, i suoi fratelli conoscevano già Bhumi, la Terra. Attraversarono insieme la grande divisione fondendosi a quei corpi che avevano utilizzato come tramiti durante la guerra nel Bhu-loka, il piano materiale. Brahma e Visnu avevano plasmato gli involucri secondo dettami precisi; egli non aveva fatto altro che ispirarsi a quelle stesse forme e dimensioni, fidandosi del giudizio di entrambi.
    Così il suo Atman, la sua stessa essenza superna, venne mischiata alla radice più pura e incontaminata della materia, estensione della sua casa primordiale e ancora in quella Realtà tanto diversa dal massimo Ordine, il principio del Brahman. Il suo sembiante fu semplificato, reso sopportabile e meno terribile. Più simile alle forme di vita che sarebbero potute nascere in quel luogo.

    Per la prima volta, grazie al suo nuovo Avatar, aveva calpestato quel sasso all'apparenza del tutto insignificante.
    Polvere e fuoco. Grezzo, primitivo.
    Bastò un istante a giudicarne il valore meccanico all'interno del sistema stellare di cui faceva parte. Un valore molto basso. La massa del pianeta non era tale da provocare drammatici sconvolgimenti ai corpi celesti più vicini a esclusione del satellite biancastro che lo seguiva nella sua pigra rotazione.
    Non era quello il punto. Poteva intuirlo.
    Non si trattava di un luogo strategico per posizione, bensì per valore assoluto: la vita, l'energia, la concentrazione di infinite variabili che proprio lì avevano trovato il loro significato comune. Si trovavano sull'intersezione di infinite linee di potere, alcune delle quali invisibili perfino ai suoi occhi.

    Pose la mano a terra, percependo una tendenza a lui affine, il lavoro di lento riequilibrio della natura che faceva il suo corso su una scala di eventi microscopica. Acqua che scorre, continua a scorrere divorando la terra, la roccia e i minerali. Un fiume sotterraneo, forse. Una forza inespressa e nascosta, privata della luce del sole, costretta e limitata. Non gli piaceva.
    Un lieve alito del suo spirito aleggiò sulla montagna, saggiandone la struttura e, alla fine, una stilla di potere sbriciolò all'istante svariate migliaia di tonnellate di materia. L'acqua prese a bagnargli i piedi, scorrendo sempre più impetuosa verso valle. Acqua pura, meravigliosa. Libera. Acqua che si intorbidiva trasportando la terra appena smossa, senza tuttavia perdere la sua intrinseca bellezza. Già poteva vedere quanto avrebbe amato quello scorrere, quanto piacere avrebbe provato lasciandosi sprofondare nel suo corso impetuoso e poi sempre più lento e possente.

    गंगा - disse il dio, sussurrando il nome come quello di un amante.

    -


    Osservò la lunga fila di immensi portici e pilastri e guglie lavorate, rendendosi conto del fatto che - in ogni caso - perfino quella esagerazione architettonica non sarebbe stato in grado di contenerlo.
    Un'espressione divertita spezzò la quieta serenità del suo volto, distendendone le sembianze.
    Due uomini si ritrassero al suo passaggio, esibendosi subito in profondi inchini. Egli sollevò la mano in segno di buon augurio e benedizione. Li amava profondamente. Malgrado fossero in origine frutti della scienza titanica, essi erano organismi intelligenti e autonomi e molti di loro continuavano a pregare i Protogenoi, sotto una forma o l'altra, odiando i creatori, seguendo la volontà del Primo Atman. Gli umani che lo servivano chiedevano spesso di essere istruiti ed egli sedeva con loro, fra loro. Per loro intonava canti capaci di aprirne la mente e rendere i sensi solo fugaci distrazioni ai margini della coscienza. I più abili lo accompagnavano in viaggi simili a sogni attraverso i reami dello spirito.

    Li aveva visti nascere, aveva osservato l'Atman concretizzarsi nella minuscola frazione di vita sufficiente a sviluppare una primitiva coscienza, quindi aveva visto la scintilla crescere e sviluppare luci e colori. Infine li aveva visti spegnersi e morire. Che fosse nel sangue o al termine di un lunghissimo percorso di illuminazione e soddisfazione di ogni desiderio, la fine di quelle piccole esistenze era affascinante tanto quanto il loro inizio. Come il vecchio eremita che gli aveva insegnato a sorridere, ormai privo di ragioni per perpetrare la sua esistenza nella carne in quella singola forma.
    Li amava quando vivevano in pace e li amava quando combattevano. Amava quando loro lo ricambiavano e perfino quando lo odiavano. Il suo era un amore incondizionato, diverso dal sentimento di Visnu e Brahma.
    Egli stesso era sempre stato diverso dai fratelli. Non temeva di danzare con gli umani al ritmo delle loro musiche. Ah, la musica! Quegli esseri neonati non avevano certo creato nulla, ma nessuno dei suoi simili avrebbe mai potuto prevedere l'inventiva che dimostravano nel tentativo di raggiungere i suoni e gli accordi della Creazione con piccoli strumenti mossi dalle mani e dal fiato. Nei secoli, la musica si era fatta sempre più complessa, più matura. Le sue danze ne avevano seguito l'evoluzione. Egli li omaggiava in tal modo, con un ballo vigoroso che esprimeva tutta la perfezione del suo sembiante. E gli umani? Gli umani lo imitavano! Ballavano insieme, ricreando con complesse coreografie le sue movenze, unendosi in gruppo in armonia tra loro per riprodurle grazie alla pura coordinazione e alla forza dei numeri.

    E ora... cosa gli rimaneva, incastrato in quello spaccato di non-esistenza? I ricordi continuavano a tormentarlo con la loro fine bellezza, privi di un senso logico o cronologico. Erano immagini stipate nella sua mente da chissà quanto tempo, immagini che lottavano per affermarsi come continue definizioni del suo io cosciente.
    Il processo sembrava non avere mai fine. Uno a uno quei frammenti si presentavano a lui con una lentezza esasperante, come se i ricordi impiegassero per concretizzarsi più tempo dell'avvenimento che racchiudevano. Anche in un luogo senza tempo era una tortura, un contrappasso impensabile per un essere che fu tanto potente.
    O forse era lui a non capire? Forse il tempo era tornato a esistere, almeno come effimera illusione? Bastava solo quel dubbio a dilaniarlo. Lui, che al Tempo dava un senso, lui che era il ponte tra il Prima e il Dopo, non era che un granello di polvere nella tempesta.


     
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    - IV -




    La sua mano si aprì.
    O ebbe l'impressione di compiere quel gesto. Ebbe l'impressione di poterlo compiere, di possedere una mano, un braccio, un corpo. Strutture umanoidi forgiate appositamente per governare l'umanità. Il suo passato si sovrapponeva a tal punto col suo non-presente da fondersi con esso. Perché quei ricordi, dopo l'oblio? Perché tutta quella violenza, quella rabbia? Perché così tanta furia? Davanti a sé, invece del Nulla, si stendevano le immense armate dei figli di Gea e Urano. L'aspetto dell'esercito, i loro nuovi mostri, frutto di perversi esperimenti, era quello di carcasse spogliate dalla loro dignità, ma restavano delle perfette macchine da guerra.
    I loro occhi, riflessi sulla sua pelle metallica, parevano piccole stelle nel vuoto dello spazio. I loro corpi erano una macabra pantomima della perfezione dei suoi fratelli; essenze ributtanti che si erano scavate la loro forma ideale nella materia. La loro mente era semplice, oscillante tra stupidità e pazzia, tra fedeltà e programmazione.

    Era solo. Nessun altro stava al suo fianco in quella battaglia. Così aveva deciso. La sua forma si estese in tutte le direzioni in un tripudio di luce purissima, la cui sola vibrazione bastò a infiammare la neonata atmosfera del pianeta su cui poggiava. L'aria era già incandescente quando Mahadeva si sollevò verso lo sciame di Giganti. Grandiosa e brutale era la sua forma plasmata dall'Atman attraverso il Brahman: egli era lo strumento ideale, potente come pochi altri e in possesso di una volontà indomita. Non nel sotterfugio o nell'inganno si nascondeva la sua forza, bensì nella gloria e nella perfezione. Se un altro si fosse trovato al posto suo avrebbe forse agito diversamente. Mefisto o un'altra opera di Erebo avrebbe ingannato la mente del nemico, costringendolo a perdersi per sempre in qualche abisso sconosciuto della sua stessa coscienza, e chissà cos'altro.

    Osservò i suoi nemici. Mahadeva ammirava la loro forza. Non li odiava. Al contrario, per qualche motivo era uno dei pochi capaci di apprezzare le minuscole similitudini tra la sua specie e quegli aborti. Essi erano stati costruiti per combatterlo, per combattere i suoi simili, ed erano estremamente efficienti nel farlo. Non avevano adattato loro stessi, non erano cambiati, non si erano evoluti: erano nati in quel modo. La loro stessa natura li rendeva armi formidabili.
    Mahadeva non era come loro. Non era stato creato per combattere, a differenza di altri nella sua stessa schiera. No, lui aveva imparato a piegare la sua natura alla battaglia. Aveva limitato la sua funzione, la sua stessa essenza a una necessità ben precisa. La guerra nel piano materiale era un rischio enorme per la stabilità stessa del disegno che aveva contribuito a creare e un rischio altrettanto grande per la loro stessa essenza. Calarsi nella materia era stato doloroso. Aveva dovuto scolpire sé stesso, separarsi dalla pienezza dell'essere per abbracciare un compromesso. Non importava quanto restasse immensa la sua essenza. Doveva sottostare alle regole di forma e dimensione. Doveva scegliere di essere uno. Comprendere la sua limitatezza e amare le sue catene.


    Esalò i vapori e il plasma prodotti dalla fusione dell'atmosfera. La temperatura folle del suo corpo metallico si concentrò nel nucleo a una tale velocità da far gelare la superficie delle estremità più lontane. Era in perfetto equilibrio, dopo millenni di lotte e violenza. Aveva imparato ad accettare la sua funzione. Poteva soddisfare l'ordine adempiendo all'essenza del suo io. Non c'era conflitto dentro di lui. L'unico conflitto era al di fuori. Nessun rumore, nessuna luce, nessun alito, nessun pensiero. Tutti i suoi occhi si chiusero, facendo calare il buio assoluto, secondo solo alla liberazione da ogni pensiero.

    मन और इंद्रियों को शुद्ध किया


    Non desiderava alcun conflitto. Il desiderio non faceva parte di lui. Era già al di sopra della volontà. Egli era pura distruzione.

    इच्छा से मुक्त


    Nel buio più totale, l'occhio centrale si aprì.
    La schiera dei Giganti venne inondata da una devastazione di luce. Gli Spartoi troppo deboli per difendersi furono annichiliti, sparendo senza lasciare nemmeno una traccia di cenere. Soltanto gli esperimenti più vecchi, quelli che avevano subito una quantità sufficiente di modifiche e che avevano abbastanza segmenti di potenziamento infilati nella carne, riuscirono a mantenere una parvenza di sembiante nei corpi carbonizzati.
    I sensi di Mahadeva percepirono le menti e gli spiriti dei nemici svanire nel nulla, spazzati dalla quieta espressione dell'apice del suo potere. Il silenzio assoluto dello spazio aperto non toglieva nulla all'eleganza della carneficina. La somma distruzione era calata sull'esercito nemico, così come l'Atman imponeva.

    La seconda formazione di Spartoi si fece avanti con gli scudi alzati, un fiume cosmico in piena che avrebbe dovuto arginare la pienezza del suo essere. Alcuni di essi, già antichi rispetto ai fratelli appena usciti dai laboratori dei Titani, plasmavano materia ed energia comprimendole in spazi minuscoli, giocando con la Creazione in modo grezzo e superficiale, ma non per questo meno pericoloso. Erano abili nello scimmiottare i doni ingiustamente concessi a Gea ai suoi figli.
    Una nuova ondata di energia proveniente dal suo corpo si schiantò sugli scudi erodendone la stabilità. Nello stesso momento uno sbarramento di proiettili venne lanciato verso di lui, migliaia e migliaia di scie luminose che si inarcavano contro il profondo nero dello spazio aperto, tanto rapidamente da provocare sfasamenti gravitazionali nei punti in cui le traiettorie curvavano per colpirlo da ogni direzione possibile.
    La potenza sguinzagliata dai Titani, che così bene conoscevano la Realtà materiale essendo prolungamenti di essa, era sempre più spaventosa a ogni battaglia. Mahadeva aveva osservato i loro miglioramenti, sintomo di una maggiore comprensione degli Uranidi sulla complessità della vita. E aveva capito. Aveva intuito che, alla fine, la materia avrebbe vinto.

    Non per questo si sarebbe arreso. La resa non faceva parte del suo essere.
    Nessuna di quelle macchine organiche poteva ancora sperare di raggiungerlo, di eguagliare la meraviglia del suo potere. I proiettili persero il bersaglio un attimo prima dell'impatto. Uno sbuffo di energia spirituale si contorse, spegnendosi nel nulla. Tornò a estendersi nella Realtà un istante dopo, liberando fasci su fasci di luce disgregante, raggi che viaggiavano a velocità incomprensibili assecondando le fluttuazioni elettromagnetiche degli astri vicini. Il gigante più vicino fu attraversato da migliaia di raggi, che proseguirono utilizzando la carne come un prisma per dividersi ancora a ogni corpo che trapassavano.
    La rabbia primitiva di quelle creature riusciva a disturbarlo nel profondo. Vedendoli contorcere per il dolore, non poteva più ignorare la loro semplicità, la blasfemia che i suoi fratelli tanto aborrivano. Sfrecciò direttamente nel cuore dello schieramento, o di ciò che rimaneva di esso. I corpi degli Spartoi venivano tagliati al solo contatto con le estremità della sua forma, liberando volute di plasma. Archi di colori indicibili si alzarono nel vuoto, privi di contenimento alcuno, molto più simili a concetti astratti, seguendo quasi la forma di pensieri nel loro stato più puro. In ciò si immerse, ne fece una certezza. Ne trasse forza e consolazione.

    Liberò svariati fendenti dal suo stesso corpo, divorando le spaccature dimensionali in cui quei piccoli esseri volevano rinchiuderlo. Il collasso conseguente spaccò a metà ciò che restava della luna più vicina. I giganti presero a usare i frammenti rocciosi della luna come proiettili, infiammandoli col loro fiato ammorbante. Alcuni passarono oltre, respinti dal suo potere; altri si infransero sulla Vibhuti divenendo polvere.
    Aveva ragione. Non potevano raggiungerlo. Non loro. Il pensiero si moltiplicò e si fece atto di distruzione. L'esplosione generata dalla sua mente devastò i meccanismi di ricezione nervosa alla base del funzionamento di quei corpi, spegnendoli all'istante.
    I cadaveri vennero travolti da una massa gigantesca, bruciante di un cosmo tanto impuro da fargli quasi male. Una formazione da battaglia perfetta, compatta e letale. Dove il semplice schieramento non poteva nulla, forse quel livello di coesione poteva almeno metterlo in difficoltà. Miliardi di bombe ad alta pressione sonora fecero tremare lo spazio tutto intorno alla sua forma, impedendogli di muoversi. Un numero assurdo di proiettili colpì le sue ali, prima che le bestie si richiudessero sopra di lui, affondando verso il metallo etereo le loro protuberanze taglienti.
    La luce tornò a splendere dal nucleo del suo corpo fisico, divenendo insopportabile. Gli apparati visivi dell'esercito di giganti furono prima saturati e poi sovraccaricati. La vera natura emerse dalle profondità dell'essenza di Mahadeva. Gli artigli stavano arrivando a scalfire la pelle metallica, i denti già la intaccavano.
    Ancora una volta, il grande occhio fu aperto, e fu distruzione. Nulla sfuggì alla sua quieta furia, niente di fisico o etereo riuscì a sfuggire, nemmeno i rarefatti gas che tentavano di addensarsi attorno a loro, o tutto ciò che rimaneva degli scontri precedenti.

    La battaglia continuò a infuriare per un tempo lunghissimo, superando di varie misure il tempo di rotazione dei corpi celesti più vicini. Il nemico continuava ad aggredirlo in ondate, senza requie, costringendolo a richiamare una quantità spaventosa di energia all'interno della Realtà, forse più di quanta dovesse.
    Non era necessario vincere: stava osando tanto, troppo, soltanto per tenerli impegnati, mentre i suoi fratelli colpivano indisturbati e in silenzio.
    Il suo grandioso atto di guerra era solo un diversivo.
    Fu certo del suo successo quando nell'ombra siderale vide stagliarsi la sagoma di una Nous.



     
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    - V -




    Il moto di rabbia attraversò la sua essenza, superando le barriere del tempo. Il dio che fu all'alba dei tempi non avrebbe avuto bisogno di combatterla. La rabbia non faceva parte di Mahayogin, non per come la stava provando. Gli umani a cui aveva trasmesso l'arte della meditazione e della comunione con lo spirito si allenavano a non provare nulla. Per loro l'assenza di sentimenti era fondamentale, come stato per accedere all'assoluta pace. Egli era sempre stato diverso, coltivando invece le fluttuazioni della sua anima fino a esaltarle in forma concreta. Per lui la meditazione era accettazione. Purificazione. Egli provava rabbia, una rabbia tanto sublimata da mutare in estasi e ascensione spirituale. Non c'era parte di sé che non si equilibrasse armonicamente con tutto il resto.

    Era diverso, in quel momento. La rabbia lo divorava. Tutto era diventato dello stesso colore della rabbia e le altre frazioni della sua essenza erano perse in quella rabbia. Perse e basta. Non c'erano. La sola rabbia era rimasta a fare da collante col passato.
    Un richiamo. Il richiamo che si fa forza di attrazione, in un non-luogo dove niente esiste. Per quella che forse fu la prima e unica volta, il ricordo sofferente di Mahadeva supplicò.

    महान आत्मा
    great atman

    मेरा मन आज़ाद करो
    free my mind

    आत्मा ही सब कुछ है
    everything is atman

    मैं ब्रह्म और आत्मा हूं
    i am brahman and atman


    Ebbe percezione del tempo che passava: non che riuscisse a contarlo, ma il singolo mutamento in corso dentro di sé lo spingeva a riconoscere in maniera inequivocabile un "prima" e un "dopo". Prima la furia sussurrava. Ora aveva iniziato a urlare.
    Non ne conosceva la ragione. Immaginava che la causa non fosse altro che la sua inazione, il suo crogiolarsi in qualcosa di diverso dal niente. Malgrado tutto, il semplice fatto di sentire qualcosa - qualunque cosa, fosse pure stata agonia - assumeva un'intensità estatica che andava ben oltre la sua sopportazione.
    Lentamente, la follia rischiava di insinuarsi nella mente di Mahayogin. Una semplice emozione poteva portarlo davvero fino a quel punto, facendone solo uno strumento? Proprio lui, che aveva combattuto contro ogni genere di orrore incarnato e disincarnato, dentro e fuori dalla realtà? Se avesse avuto un corpo, i suoi muscoli di fibre di metallo celeste si sarebbero tesi fino a scoppiare. Se avesse avuto un cuore, i battiti avrebbero sfondato i suoi stessi timpani. Se avesse avuto sangue, il suo scorrere impetuoso avrebbe finito col riversarsi come l'acqua di Ganga, il suo amato fiume, trascinando con sé l'intera Terra.
    Cosa significava quella spinta vitale, quella rabbia feroce e sanguinaria che faceva di tutto per tornare a prosperare dalla sua essenza? Come poteva sentirsi vivo? Come poteva sentire qualsiasi cosa? Come poteva rendersi conto di esistere?
    La domanda lo faceva impazzire. Il fatto stesso che fosse in grado di porla a sé stesso era un concetto che andava oltre qualsiasi regola. Lui non poteva esistere.

    Il richiamo non si fermò. Si fece più insistente, un lento graffiare di artigli in un unico punto. Gli causava dolore. Non era più un urlo, bensì il fragore di una folla immensa, sconfinati eserciti pronti alla battaglia che gridavano di svegliarsi, di respirare, di muoversi, di prendere coscienza. Mahadeva non aveva la forza di comprendere. Egli non poteva completare nemmeno il pensiero che faceva da ponte tra esistenza e non-esistenza. Non viveva la separazione tra queste due realtà: esse erano sovrapposte, incatenandolo in un limbo amorfo.
    Ma il tumulto lo scosse facendo aumentare la sua rabbia, cancellando dubbi e domande. Li sradicava. Davanti a quel grido, alla moltitudine di grida, non esisteva esitazione, nemmeno nel Vuoto.
    Rapido, un respiro simile all'inizio dei tempi prese a bruciare al centro esatto dei suoi pensieri. Ed esplose. Un nome, un sembiante scolpito nella brutalità della creazione, un sorgere e costruirsi degli aspetti più crudi e spaventosi che la sua essenza avesse mai prodotto.


    VJdCIgU

    B H A I R A V Aभैरव

    FRIGHTFUL ONE


    Qualcosa si ruppe nel profondo di quella prigione inesistente e un fluire di sensazioni attraversò il suo essere.
    Poteva sentire. Fu un'inondazione. Per quanto non ci fosse nulla intorno a lui, la sua anima quasi si disperse sotto una tale pressione. Il niente pesava come una montagna, sull'ombra che era diventato.
    Il suo sembiante si estese, privo di limiti. Gli servì tutta la sua forza per non esplodere e disperdersi in scintille di coscienza in quel regno senza confini. Non aveva il suo sacro corpo, la sua Vibhūti. Non aveva il controllo totale sul suo Atman, non privo com'era di qualsiasi connessione alla grandezza dell'immateriale. Per la prima volta dopo chissà quanti eoni, la sua essenza era nuda. Se si fosse trovato a contatto con la Realtà materiale, la sua fiamma si sarebbe spenta in un istante, consumata dal contatto con essa.

    Ci mise un'eternità a comprendere tutti questi dettagli, o almeno così avrebbe potuto affermare se il tempo fosse stato qualcosa più di una vaga idea, dove si trovava. Qualcosa in lui era profondamente diverso. Non che si sentisse sbagliato; le sue percezioni non arrivavano ancora a tanto. Continuava a estendersi e contrarsi in quel vuoto ai margini delle più periferiche iterazioni eteree, dove la differenza tra esistenza e non-esistenza poteva dipendere da un solo pensiero in più o in meno.
    L'unica costante, la fibra che impediva alla sua anima di tornare a sfaldarsi, era la furia che sentiva appena sotto la superficie. Da una miccia, essa era diventata un'ancora. Lo tratteneva. Quella fibra era parte di lui. A partire da essa si stava intrecciando, raccogliendo i brandelli delle sue sensazioni per ricostruire la trama di sé. Più si trascinava attraverso quel processo e più chiaramente si rendeva conto che il suo risveglio non potesse essere un caso.
    Uno strano evento aveva aperto la via e una voce l'aveva forzato a raccogliere i propri pezzi per rimetterli insieme. Erano in pochi gli esseri abbastanza potenti da disfare ciò che lui e i suoi fratelli avevano causato a loro stessi: non poteva che essere uno di loro.

    -

    Distruzione e ricostruzione si alternarono per un numero folle di cicli, finché la sua essenza divenne in grado di riconoscere l'energia che stava estraendo per ricrearsi. Era conflitto, l'opposto della Necessità e suo diretto bilanciamento. Era la voce di Polemos a scorrergli dentro.
    La comprensione rese tutto più facile. Come se si destasse da un lunghissimo sonno, Mahadeva trasse un profondo respiro, o qualcosa di molto simile in termini umani. Il gesto non aveva nulla a che vedere con gas e complesse membrane che li filtravano per trasferirli nel sangue. Quel respiro era in realtà una bassa vibrazione, una nota negativa emessa dalla sua essenza nell'atto di affermare sé stessa.
    Il piano spirituale ove aleggiava assunse più definizione, forse perché finalmente esisteva abbastanza da poterne trarre qualche grado di sensibilità. Ancora una volta, contrasse la sua nuda anima. In quegli ultimi ricordi, nella viscerale violenza di Bhairava, fu infuso il suo spirito, malleabile come metallo fuso colato in uno stampo.
    La pelle eterea divenne simile al sangue degli uomini, un rosso intenso e tremendamente brutale alla vista, mentre la gloria della battaglia accese gli occhi di una tetra luce, rendendoli simili a tizzoni incandescenti. Lunghi capelli serpentini intrecciarono il capo umanoide, reso ancora più bestiale da zanne affilate ai lati della bocca. Tra le sfumature carminio e scarlatte della carne, protuberanze simili a ossa gli cingevano la vita e circondavano braccia e gambe in semplici corone di punte appena sporgenti, adornandolo come semplici bracciali e cavigliere.
    Un impeto di carnale frenesia lo costrinse a chiudere le quattro braccia attorno al busto, come se volesse abbracciare sé stesso. La forma astrale si contorse, scossa da un brivido di assoluto piacere, così potente da infiammarlo di purissima energia. Fiamme eteree, volute cremisi e lingue guizzanti dello stesso colore del sole al tramonto presero a brillare nell'oscurità, gettando bagliori inquietanti sui profili irregolari di quello strano spazio.

    Fu come un richiamo. L'aspetto terrifico di Mahadeva si incrinò appena, quando i suoi due occhi simmetrici colsero un movimento fugace, nero su nero, come un'ombra che scivola attraverso un'ombra appena meno scura. Il brivido si trasformò in suono. Una risata bassa e gutturale esplose dalle fauci spalancate, prima lenta e poi sempre più veloce. La lingua forcuta scattò come quella di un serpente, strisciò lasciva sulle labbra livide e sulle zanne.
    Sentire il suo petto processare ed emettere quei suoni, il suo corpo esprimere emozioni in modo tanto estremo, non fece altro che alimentare l'euforia che lo pervadeva. Rideva come gli aveva insegnato il vecchio eremita, rideva perché, alla fine del suo infinito esilio, non esisteva altro atto che fosse più adatto di quello. Rideva perché riconosceva le ombre.


    I sussurri lo circondarono quando ancora la sua schiena si inarcava per reprimere un altro eccesso di risa, incapace di trattenersi. Scalciava l'aria, ancora sospeso nel nulla. Un'altra scossa lo invase. Non conservava nulla dell'antica austerità che aveva affascinato tanti popoli. Il suo petto esplodeva a ogni battito, alzandosi visibilmente e rimbombando come un tamburo. Il ritmo aumentava sempre più, fino a diventare esasperato. Se un orecchio mortale l'avesse udito per più di qualche secondo sarebbe certo impazzito.
    Ora li sentiva con chiarezza, così come poteva sentire sé stesso. Erano accorsi per ricacciarlo nell'inesistenza? Volevano tormentarlo? Erano volati fino a quell'angolo del creato per farlo impazzire? Per violentare la sua anima con voci graffianti? Volevano farlo sanguinare, cedere alla follia per i suoi peccati? Erano giunti per renderlo uno di loro?

    Senza smettere di gridare la sua gioia, le mani tremanti e le braccia scosse dagli spasmi del suo torace, egli accolse la furia. Inspirò, e l'aria immaginaria si fece di plasma instabile attorno alla materia spirituale che componeva il suo simulacro. La sua voce fu il crollo di una montagna, il fiume in piena che abbatte gli argini e il cielo in tempesta. Le mani si spalancarono, quasi a dar ulteriore impeto al boato che si faceva strada nella sua gola, le venti unghie affilate e nere come ossidiana levigata.
    Gli spettri lo guardavano. I loro occhi vacui erano fissi su di lui.

    Abbassate il capo, ministri del vizio!
    Cedete il passo al dio che cammina tra gli uomini!
    Nessuna delle vostre sciagure può intaccare il mio furore!
    Io, che ho riversato piogge di fulmini su intere città di demoni; io che ho ricacciato nell'ombra eserciti e generali; io che ho stretto nel mio pugno la gola del vostro empio progenitore...

    IO VI COMANDO
    TREMATE E NASCONDETEVI



    अधर्म की असंख्य उपजें
    COUNTLESS SPAWN OF ADHARMA




     
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