Prière éphémère

Elkade per Loa Guede

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    Prière Éphémère

    Elkade per Loa Guede

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    Ou se pousyè, e w ap retounen nan pousyè.



    Sei immerso nella completa oscurità.
    Dov'è Brigitte? Dov'è Nibo? Dove sono tutti gli altri?

    Non sai rispondere a questa domanda poiché forme e suoni sono per te sconosciuti, Sanmdi. Forse è questo che tocca a qualcuno che smette di sentire il proprio nome invocato, che smette di ricevere offerte, balli e inni. Prima era tutto così rumoroso, una festa, un continuo canto a te, la cui forza e le cui anime strappate andavano ad alimentare l'immenso potere del Lost Canvas.

    Eppure, adesso è tutto immobile. Sono passate settimane, forse mesi o anni e hai quasi perso il senso della tua esistenza, lontano da colei che indossava la surplice e combatteva accanto ai portatori di distruzione dell'universo. Oh la solitudine è vettore della follia in tante storie, Sanmdi, e la tentazione è grande.

    Nel tuo momento peggiore, nel momento in cui senti che la tua esistenza è ridotta ad una singola fiamma di cosmo, percepisci qualcosa. Una nenia, un canto disperato che parte molto basso e diventa sempre più intenso, pur mantenendo la sua gentilezza e il suo senso di paura. Si tratta del canto di una donna anziana che per te è una traccia da seguire, qualcosa che ti permette di ritornare a 'casa'.

    La donna ciondola in un angolo di una stanza dimenticata ed è prossima alla morte, è stanca, non mangia da giorni e ha finito le razioni per bere. Ormai stanca e quasi inferma, sente con paura qualcosa strisciare nella sua vecchia villa, qualcosa che graffia contro le pareti. Tra le mani, ultima risorsa, stringe un simbolo dimenticato in un cassetto, stringe quella che per te è l'ultima speranza.

    L'oscurità comincia a dissiparsi mentre segui quella nenia con trepidazione, la prima volta che qualcuno invoca il nome dei Loa in tanto, tanto tempo. Forme e colori cominciano a diventare più nitidi ad ogni passo e ti rendi conto di essere esattamente in quel luogo. La donna sbarra gli occhi, impaurita, mentre le stanche braccia cercano di alzarsi in protezione e forse adorazione.

    Un rumore secco, qualcosa comincia a correre e sbattere per il corridoio fuori la stanza, percependo un'improvvisa nota di cosmo. Sistemi il tuo cappello in euforia e malsana gioia perché ancora una volta Sanmdi è stato salvato da un fedele, ancora una volta è tornato per mostrarsi agli adoratori come padre e morte, come canto di danza e sospiro di ultimo riposo.

    Hai del lavoro da fare, chiudi la porta dietro di te ed esci nel corridoio, dove un corrotto dalla forma serpentina, dotato di lunghi artigli, urla per lanciarsi contro di te. Questa stasi ti ha indebolito molto, ma sei perfettamente in grado di prenderti cura di un mostro del genere.





    _____________________



    Angolo Master

    Eccoci!
    Un inizio abbastanza 'tranquillo', descrivi prima la parte di solitudine e dimenticanza in cui è caduto Sanmdi dopo così tanto tempo in cui i vostri adoratori sono morti, o vi hanno abbandonato. Puoi intepretarlo come essere in una cantina buia e dimenticata quando la casa è completamente distrutta e rasa al suolo. Concludi il post quando finisci di ammazzare quel povero corrotto.

    Sei energia Verde per ora. Hai il cosmo grezzo e il cosmo distruttivo, ma non Nibo.
     
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    Elkade per Lwa Gede

    I
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    Tra tutte le innumerevoli virtù di cui Gede poteva vantarsi, senza alcuna pretesa di serietà e con la peggior faccia tosta di questo e dell’altro mondo, di sicuro non figurava la pazienza. Il concetto dell’attesa era di quanto più alieno ci fosse per lui. Detestava con tutto il suo essere la sensazione di essere invischiato nel tedio fino al prossimo evento degno della sua curiosità, a fissare il tempo che gocciola con una lentezza esasperante: per questo ogni volta che ne aveva l’occasione saltava da una testa all’altra, rincorrendo qualunque cosa fosse in grado di spezzare la monotonia dell’eternità. Ma ora di cavalli da sellare non c’era nemmeno l’ombra, ben disposti o meno. Nessun rullare di tamburi, rintocco di campana o fruscìo di sonagli. Non ricordava nemmeno più l’ultima volta che era stato risvegliato dal bussare incessante del batri, o che aveva ascoltato la voce dell’oungenikon trascinare il coro dei servitori in un canto di invocazione che faceva vibrare i loro cuori all’unisono sotto il sorriso della luna. Quando era stata l’ultima volta che li aveva invitati a danzare con lui sul confine tra sogno e realtà, liberi da sciocche convenzioni e pudori infondati, finalmente onesti con i loro corpi e le loro anime, in un volteggiare di stoffe nell’aria densa di fumo di sebo e tabacco? Quando aveva udito per l’ultima volta il canto di morte del gallo sacrificale e aveva assaporato il calore umido del suo sangue sulle labbra del suo chwal?

    Aveva fame.

    Non di cibo, non solo, perlomeno. Era un appetito bruciante, sfrenato, che lentamente lo stava divorando dall’interno. Aveva fame di tutto ciò che il mondo materiale poteva offrirgli. Aveva fame di carne e sangue, delle voci dei suoi fedeli e dei loro gemiti, del calore dei loro corpi. Invece era condannato a consumarsi, prigioniero di un’oscurità muta, fredda e opprimente, solo come non lo era mai stato prima.

    Senza di lei. Senza di loro.

    Nemmeno ricordava più cosa si provasse a essere uno, se mai lo aveva saputo. Il vociare allegro dei suoi figli lo aveva sempre accompagnato, i loro bisbigli e le loro risate come un piacevole solletico in fondo ai suoi pensieri. Si chiedeva se li avrebbe visti sorridere ancora, se avrebbe riso ai loro scherzi, giocato con loro, combattuto al loro fianco.

    Nibo?

    Nibo, mi senti?


    Tra tutti, lui era quello di cui pativa di più la mancanza. Il suo primogenito, il gioiello più splendido e più puro della sua nazione. La prima creatura che aveva desiderato tenere per sé. La prima che lo aveva cambiato in un modo che non avrebbe mai potuto immaginare. Aveva scavato un solco nella sua essenza. Gli aveva mostrato il mondo attraverso i suoi occhi e gli aveva permesso di guardarlo con lo stupore di un bambino. Gli aveva fatto conoscere un amore così limpido e inscalfibile da sopravvivere alla morte.

    Bri, dove sei?

    E poi c’era lei, la sua compagna, la sua sposa e madre dei suoi figli. Cosa non avrebbe dato per sentire ancora una volta l’abbraccio del suo cosmo, caldo e pungente come piman, inebriante come il profumo dei fiori di tabacco selvatico. Quanto avrebbe voluto ascoltare di nuovo il dolce suono del suo canto.

    Gli sarebbe bastato sognarli tutti una volta soltanto. Non poteva accettare di separarsene ancora, aveva giurato che non li avrebbe più lasciati. Li aveva chiamati così a lungo. Aveva gridato i loro nomi senza una voce. Aveva scrutato le tenebre infinite senza occhi per guardare. Aveva sperato in ogni istante di poter sentire una risposta o di scorgere anche il più flebile bagliore rischiarare quel buio impenetrabile. Tutto invano.

    Era stremato, esausto, tragicamente lucido. Contemplare il vuoto della loro assenza, costretto a viverne ogni singolo istante, era un incubo da cui non riusciva a svegliarsi. Si sentiva impotente. Si chiese se essere sepolti vivi per errore desse la stessa angoscia, se le macerie dei loro templi sarebbero state la sua pietra tombale e lui si sarebbe spento lentamente sotto di esse. Quanti altari languivano abbandonati alle intemperie, lavati dalla pioggia e non dal sangue delle bestie sacrificali? Quanti potomitan giacevano abbattuti al centro dei cortili, spogli e infranti, agonizzanti? Non poteva credere che la fede dei suoi servitori si fosse spenta così in fretta. Aveva resistito persino all’avvento della corruzione. Non avevano mai smesso di pregare o cantare anche quando non erano accanto a loro, anche quando non potevano offrire in sacrificio che un singolo chicco di riso stantìo o una minuscola goccia di rhum sul fondo di una bottiglia infranta. Quando Hypnos era tornato, quando aveva permesso a Sanmdi di riunirsi alla sua famiglia, i loro inni di giubilo si sentivano fino al cielo, incuranti della paura della morte o nella sua piena e più profonda accettazione. Erano guerrieri che lottavano con tutta la forza della loro anima. Il suo non era un popolo che si lasciava intimorire dalle avversità. Era nella loro natura non spezzarsi mai. Perché avevano smesso di combattere all’improvviso, perché questo silenzio?

    Apri le porte. Ti scongiuro, Buon Signore, apri le porte per me.

    Pregava nei recessi della sua mente, nella speranza che lui fosse in ascolto. Doveva sapere. Doveva affrontare la verità, anche se la temeva con tutta la sua anima.

    Lasciami passare, lasciami andare da loro.

    Ormai gli erano rimaste solo quelle parole, ripetute ancora e ancora. L’unico appiglio per non lasciarsi scivolare nella follia, per distogliere la mente dai pensieri cupi che si facevano sempre più fitti e invadenti. Non ha ascoltato questa volta, ascolterà la prossima, si diceva. Non è ancora il momento, si diceva. Ogni volta si raccontava una storia diversa per non accettare l’idea che non sarebbe mai riemerso da quelle tenebre.

    E un giorno un’altra voce si unì alla sua in preghiera.
    Quella di una donna.

    È questa l’ora della mia morte?


    Se avesse avuto un cuore in quel momento avrebbe perso un battito. No, non era quella la sua voce, nemmeno le somigliava. Eppure gli era familiare… No, doveva aver immaginato tutto. Era rimasto solo così a lungo che doveva aver cominciato ad avere le allucinazioni. Eppure quel sottilissimo filo di voce non accennava a spegnersi, una parola dopo l’altra, una nota dopo l’altra, flebile, gracchiante, ma animata da un fervore in grado di riaccendere finalmente una scintilla in lui. Finalmente, una dei suoi servitori lo stava chiamando.

    Papà Gede, sono nelle tue mani,
    Papà Gede, la sorte mi è avversa!
    È questa l’ora della mia morte?
    Senza di te sono perduta,
    Non lasciarmi alla mia miseria!


    Si lasciò trasportare da quella fragile melodia, facendo danzare il suo cosmo all’unisono con essa, nutrendosi di quell’invocazione e del suono del suo nome. Incredibile come una cosa apparentemente così umile potesse donargli tanta forza. Sentì la sua stella fremere e pulsare, riempire il vuoto di un calore che aveva dimenticato.

    Le porte si spalancarono e la luce lo travolse.

    ✳ ✳ ✳



    Sperava in un’accoglienza migliore, doveva ammetterlo. L’odore di sudore e sporcizia che aleggiava nella stanza non lo infastidiva più di tanto, dopotutto era abituato a officiare riti funebri e il caldo tropicale non era clemente con i cadaveri. Era una puzza diversa quella che lo disgustava, una sensazione di putridume malato, brulicante e innaturale che metteva in allerta il suo corpo e in agitazione il suo cosmo. Gli si rizzarono i capelli sulla nuca mentre brividi di orrore e repulsione gli guizzavano sotto la pelle. Conosceva fin troppo bene quella sensazione. Quanto ci era andato vicino a diventare anche lui uno di quei mostri, solo lui lo sapeva. Aveva trascorso mesi e mesi a tenere a bada una di quelle cose tentando di resistere alle sue disgustose lusinghe. Un tempo era stata una sua simile, caduta vittima di quell’oscena perversione dopo che una loro servitrice l’aveva invocata alla disperata ricerca di protezione e vendetta. Aveva giocato con lui come fosse un burattino, forte del fatto che si fosse presentato senza armatura e che non avesse intenzione di ferire né lei né la sua chwal. Allora credeva ancora di poterla salvare. Si era illuso che avrebbe potuto risvegliare ancora la sua vera essenza, sopita dalla mostruosità che la controllava. Alla fine era stata Brijit a portare a termine ciò che lui non aveva avuto il coraggio di concludere, distruggendo il nido di corruzione che contaminava Port-au-Prince. L’aura che poteva percepire in quella casa era nettamente più debole, ma non poteva fare a meno di provare lo stesso ribrezzo. Sentirlo grattare i mattoni appena fuori dalla soglia della camera gli faceva venire la pelle d’oca. Innalzò una barriera di cosmo oltre la porta. Non voleva che quell’essere si avvicinasse più di così. Non gli avrebbe permesso di prendere la sua servitrice.

    Abbassò lo sguardo verso il fagottino di stracci che giaceva rannicchiato ai suoi piedi, troppo voluminoso per la figura che conteneva. Un tempo Josephine era stata una bella donna, elegante, raffinata e colta, una gran signora che parlava fluentemente francese. Era il tipo di persona che certi bigotti benpensanti difficilmente avrebbero immaginato a ballare nel cortile di un ounfo una volta uscita di chiesa. Invece, in quel cortile, lei c’era cresciuta. Suo zio materno, eccellente suonatore di tamburo madre, l’aveva portata con sé alle cerimonie da quando era stata in grado di reggersi in piedi. La devozione della sua famiglia era perlopiù rivolta ad altre nazioni, ma aveva sempre portato alla sua stirpe il rispetto dovuto e non si era mai risparmiata con i sacrifici, complice il fatto di essere abbastanza ricca da potersi permettere di offrire del bestiame ben pasciuto con una discreta serenità. Gede ricordava una volta in cui le aveva soffiato la ciotola di migan da sotto al naso per dispetto durante rito per i Marassa, allora doveva avere quattro o cinque anni al massimo: lei, con tutta l’audacia che solo un bambino incosciente può mostrare, aveva ben pensato di rubargli a sua volta il bastone per vendicare l’affronto e di restituirglielo tra un occhio e l’altro, nello sgomento generale dei presenti. Lui ci aveva riso per ore e le aveva regalato una piuma dal suo cappello per premiare il suo coraggio. Magari lei nemmeno se lo ricordava. Lui, invece, li ricordava tutti quanti: prima o poi tutti passavano da lui, che lo volessero o meno. E lei ora lo aveva chiamato per sé.

    Con delicatezza afferrò una delle mani grinzose della donna ormai anziana, tese davanti a lei per la sorpresa e lo spavento. Sciolse con dolcezza la presa sulla piccola croce che stringeva tra le dita ossute e tremolanti e le schioccò un breve bacio sulle nocche, poi avvicinò il viso al suo orecchio.

    Quando avete bisogno di me mi chiamate padre...

    Cominciò a intonare in risposta al suo canto, impostando la voce in modo da accentuare il timbro leggermente nasale.

    Quando non vi servo più, per voi sono solo un buffone.

    Si scostò, fissando su di lei uno sguardo carico di rimprovero. La vide sbiancare e tremare ancora di più, annaspando in cerca di una giustificazione che non riusciva a formulare, troppo esausta e confusa per poter ragionare lucidamente. Forse era stato un tantino troppo severo, date le circostanze. Le sorrise e le rifilò un buffetto leggero sul naso.

    Oh be’, non avete poi tutti i torti…

    Ghignò, poi si sfilò una piuma di gallo dalla fascia del cappello e la sistemò tra le pieghe del turbante dell’anziana donna, accarezzandole una guancia come aveva fatto tanti anni prima. La sentì sussultare al suo tocco, ma le sue labbra secche e crostose si piegarono in un accenno di sorriso.

    Puoi reggermi il bastone un secondo, ti-Josephine?

    Le fece l’occhiolino mentre le consegnava l’oggetto con fare complice.

    E un’ultima cosa, cara: riferisci a Bawon Sekreté che deve portare il suo culo qui di corsa.

    Io... come...?


    Balbettò lei con un filo di voce appena, strabuzzando gli occhi per la confusione.

    Non preoccuparti, va bene così.

    Se non c’erano stati stravolgimenti gerarchici in sua assenza- e, a giudicare dall’età che Josephine dimostrava, più di qualche annetto non doveva essere passato- suo figlio Sekreté doveva essere ancora in servizio al Tribunale come Procurator ad interim, incaricato da Minosse in persona. In ogni caso, chiunque maneggiasse l’archivio attualmente avrebbe potuto leggere nero su bianco ciò che aveva appena detto. Magari non l’avrebbe notato subito, magari avrebbero deciso di farlo stare un po’ sulle spine apposta. Intanto una traccia l’aveva lasciata. Non ci avrebbe fatto affidamento per levarsi dai guai, ma forse sarebbe riuscito ad avere un minimo di spiegazioni o, meglio, rassicurazioni riguardo la sua famiglia.

    Resisti ancora un po’.

    Si rialzò e si diresse verso la porta. Da fuori provenivano schiocchi e sibili rabbiosi, insieme a un raschiare continuo appena sotto la maniglia. Si chiese si trattasse di un corrotto intelligente: a giudicare da quei versi, non lo sembrava affatto. Meglio così, in quel caso avrebbe avuto un problema di meno. Trovava più faticoso del solito mantenere in piedi la barricata e in più si era manifestato senza la surplice. Che fosse rimasta con Brijit? Era stato lui a inviargliela, nella speranza che la tenesse al sicuro finché non avrebbero potuto ricongiungersi. Lei era stata l’ultima portatrice. Si chiese se non dovesse interpretare come un buon segno il fatto che non fosse tornata indietro. Forse la stava ancora proteggendo e i loro figli erano rimasti con lei. Se fosse stato davvero così, sarebbe stato ben lieto di lasciargliela. Lui se la sarebbe cavata anche nudo. Be’, non proprio, ma il frac non si poteva certo definire una valida armatura.

    Sistemò il monocolo sul naso, poi fece esplodere la barricata dal lato opposto alla porta. Lo stipite tremò, mentre gli strepiti della creatura si facevano ancora più acuti. Un tonfo gli suggerì che fosse riuscito a spingerla indietro fino alla parete opposta del corridoio, perciò non perse tempo e socchiuse la porta quanto bastava per scivolare fuori e se la richiuse immediatamente alle spalle con un colpo di tacco.

    Vieni qui, succhiacazzi.

    La incitò, mentre faceva ardere il proprio cosmo per rendersi una preda più ambita. Aveva imparato che i corrotti ne venivano attratti come falene da una lanterna, quelli meno svegli soprattutto. Quello in particolare non aveva bisogno di farsi pregare per saltargli addosso. Scrollatosi di dosso i calcinacci che gli erano caduti addosso, il mostro gli si gettò contro ad artigli sguainati, ben intenzionato a fargli prendere aria alle viscere. Sanmdi balzò in avanti e gli intercettò i polsi, sollevando di scatto le sue braccia esili. Si sorprese di quanto fosse forte, malgrado il suo aspetto emaciato: la pelle appariva tirata sulle ossa del suo viso, rigirate e rifuse tra loro in una forma che ricordava a malapena il volto della donna che doveva essere stata un tempo, così sporgenti da dare l’impressione che le orbite fossero completamente vuote. Un fugace lampo giallo sembrò riempirle mentre la sua mente sovrapponeva per un istante a quell’ammasso deforme dei lineamenti più familiari, di una bellezza così perfetta da risultare irreale e raccapricciante allo stesso tempo. Erzulie Dantor.

    Sei venuto senza guinzaglio? Ne hai, di coraggio.


    Quella frase di scherno pronunciata da una voce infantile invase i suoi pensieri prepotentemente, una minuscola esitazione che rischiò di costargli caro. La corrotta approfittò della sua stretta per trascinarlo verso l’alto avvitandosi su se stessa, per poi infliggergli una sonora codata sugli stinchi. Sanmdi dovette mollare la presa per ripararsi il viso mentre cadeva. Rotolò su un fianco, scansando appena in tempo un affondo che lasciò gli artigli di una mano della corrotta incastrati tra le assi del pavimento. Lui si alzò in ginocchio, poi intercettò un nuovo colpo di coda diretto alla faccia. Affondò le dita tra le squame ruvide mentre veniva spinto con violenza contro il muro, tanto forte da crepare l’intonaco e i mattoni sottostanti. La carne sotto quella pellaccia da serpe era muscolosa, compatta, difficile da afferrare. Per evitare di farsi spellare le mani a sangue mollò la presa non appena lei strattonò per liberarsi. Scattò in piedi stringendo i denti per la schiena dolorante e riuscì a sfuggire alla terza codata spiccando un salto verso il lato opposto del corridoio, poi scivolò di lato per portarsi alle spalle della creatura. Le afferrò il groviglio ispido di nodi che una volta dovevano essere stati i suoi capelli e la strattonò con forza, fino a costringerla a inarcare la schiena all’indietro. Lei soffiò in mezzo alla chiostra di denti appuntiti facendovi guizzare in mezzo la lingua biforcuta. Si chinò appena su di lei e soffiò. Una piccola nube di fumo bianco uscì dalle sue labbra, avvolgendo totalmente il viso scheletrico della corrotta, insinuandosi in ogni piega della sua pelle, nella rientranza delle sue orbite, nelle sue orecchie, all’interno delle narici esposte del suo naso consumato e dentro la sua bocca, giù fin dentro la gola. Le sue urla si spensero, soffocate nella cenere. La sua carne cominciò a sfaldarsi in sottili lamine grigie e in polvere leggera, appena illuminata di una tenue luce viola mano a mano che il cosmo disgregatore aggrediva i suoi tessuti, mettendo a nudo ossa nere come carbone.

    Muta. Devi stare muta, baldracca.

    Ringhiò, rivolto a lei quanto alla vocina che continuava a deriderlo nei suoi ricordi. Nel frattempo, la corrotta si contorceva, avvolgendo su se stesse le spire della lunga coda. Si dimenò tanto che l'asse che le teneva imprigionati gli artigli si spezzò in una pioggia di schegge. Di nuovo libera, si voltò di scatto e si avventò verso di lui alla cieca tentando di graffiarlo. Sanmdi non aveva spazio sufficiente per arretrare. Riuscì a schivare il primo attacco, ma la seconda artigliata riuscì a squarciare il tessuto della giacca e della camicia, che si tinsero immediatamente di rosso vivo. Il dolore arrivò dopo poco. Quegli artigli dovevano essere ben affilati. Strinse i denti e gemette. Per fortuna il taglio non doveva essere molto profondo, ma poteva sentire piccoli rivoli di sangue gocciolargli lungo il fianco.

    Lo sai cosa si fa con i cani randagi, Sanmdi?


    Scartò di lato per evitare un nuovo colpo ma, quando lei provò a ferirlo un’altra volta, lui afferrò saldamente l’avambraccio. Balzò in avanti, puntellandosi con i piedi sul suo fianco, dove le squame della coda lasciavano il posto a un torace minuto e scarno, poi colpì il gomito con tutta la forza che aveva con la mano ancora libera e contemporaneamente tirò con l’altra nella direzione opposta, squarciandole la pelle e facendo riemergere l’osso ormai disarticolato in uno spruzzo di sangue nero. Infine, mentre il fumo bianco si ammassava attorno all’arto spezzato e cominciava a divorarne la carne, Gedé si diede una spinta sulla robusta coda e balzò via, trascinando con sé l’avambraccio con uno sgradevole suono umido. Lei si rannicchiò, reggendo il moncherino tra gli spasmi di dolore. Si preparò a finirla. Non aveva intenzione di perdere altro tempo con lei. Scattò indietro, scivolando sul pavimento per mettersi al riparo dalle frustate della coda, poi rivestì il braccio mozzato di cosmo grezzo per irrigidirlo e ne intrise gli artigli del suo potere distruttivo. Lo issò sopra la sua testa, caricò e attese che rialzasse il capo per lanciarlo dritto contro il suo cranio, ormai assottigliato così tanto da sembrare carta. La macabra lancia la trafisse all’interno di una delle orbite, trapassando con facilità il cervello e conficcandosi nell’osso occipitale, mentre il corpo della corrotta veniva sbalzato all’indietro e cadeva inerte sul pavimento. Ansimante, Sanmdi si avvicinò al cadavere della creatura, contemplandone la meschinità con tutto il suo disprezzo.

    Si sgozzano sopra un altare.


    Sputò sul corpo di quella mostruosità.

    Riprovaci se ti riesce, puttana.


    h8aMTzT
    narrato parlato pensato

    U4wVnsq
    nome Sanmdi
    energia Verde
    surplice Non pervenuta
    casta Spectre
    fisicamente Ematomi su gambe e schiena, graffi sul fianco destro
    mentalmente Voglio andare a casa :zizi:
    riassunto azioni Come da consegna, divento scemo finché sono ad aspettare, mi yeeto via non appena ne ho la possibilità e parlo un po' con la mia servitrice prima di prendere a sberle autoconclusivamente la corrotta :zizi:

    Ou se pousyè, e w ap retounen nan pousyè
    Venerato dai vodouisant come divinità della morte e custode delle sepolture, non si limita ad accompagnare i mortali verso il destino che, salvo imprevisti, attende tutti loro, ma si assicura anche che i suoi fedeli defunti restino tali e che a nessuno venga in mente di farli saltar fuori dai sepolcri sulle loro gambe, vivi o quasi. A questo scopo tornano utili le capacità distruttive del suo cosmo, di aspetto e consistenza simile a quella del fumo di tabacco, in grado di ridurre a polvere e cenere tutto ciò che tocca: efficace per far sparire in fretta il contenuto di una tomba o, meglio ancora, un incauto profanatore. L’improvvido furfante in questione non si ritroverebbe semplicemente a decomporsi tra atroci sofferenze mentre ancora respira, ma avrebbe seri problemi a tentare la fuga, logorato dalla stanchezza oltre che dalla perdita degli arti...


    Men anpil, chay pa lou
    [Bloccata]


    Note per secchioni
    Benvenuti a una nuova puntata di Elkade che vi tedia coi tecnicismi :zizi:

    Qualche chiarimento per i lettori più secchioni o semplicemente confusi dalla sfilza di termini specifici :asd: spero di non sfinirvi.

    I tamburi, la campana (ogan) e il sonaglio (asson) sono i tre strumenti principali usati nelle cerimonie vodou Haitiane. Tutti e tre contribuiscono in modi diversi a regolare le manifestazioni dei lwa, accelerando, rallentando o bloccando le possessioni, principalmente per l’incolumità dei presenti. L’asson generalmente è utilizzato dai sacerdoti, mentre i tamburi (benché siano piuttosto complessi rispettando le necessità dei tempi sacri) di norma vengono suonati da semplici fedeli. Il batri è uno specifico ritmo dei tamburi che può essere interpretato come un invito ad aprire le porte dell’altro mondo.

    L’oungenikon, invece, è una specie di direttore d’orchestra che dirige il coro dei fedeli, conosce i canti principali utilizzati in uno specifico tempio e si occupa di tramandarli o adattarli al contesto delle cerimonie. Il vodou non ha testi sacri ed è una religione molto radicata nel presente e nella quotidianità dei fedeli, e la tradizione dei canti rispecchia questa fluidità: canti più convenzionali convivono con altri estremamente circostanziali che nascono spontaneamente a seconda delle necessità del momento. Sono riuscita a trovare dei repertori da usare come riferimento, ma chiaramente tutti i canti citati nel post sono mie libere reinterpretazioni :zizi: Quello di Josephine vuole essere un canto di invocazione, mentre la risposta piccata di Gede si rifà alla tradizione dei chante pwen (semplificando all’osso, è una forma particolare di dissing :asd: ), che è ben integrata nell’insieme dei canti cerimoniali (specialmente se si manifestano Gede).

    Le cerimonie a carattere pubblico si svolgono nei cortili dei templi (ounfo), dove c’è spazio per le danze e possono essere portati gli animali da sacrificare. Il potomitan è il palo che si trova al centro del cortile, simbolo dell’intersezione tra il mondo materiale e quello spirituale: è considerato anch’esso un’entità degna di venerazione e viene salutato prima dei tamburi e degli stessi lwa. Chwal (letteralmente “cavalli”) è la parola per indicare le persone possedute (in gergo “montate” o “cavalcate” dai lwa. La danza a cui alludo a inizio post è la banda, ballo dalle movenze... un tantino esplicite che viene eseguito nelle cerimonie per i Gede.

    Il piman è rhum speziato particolarmente apprezzato dai Gede, a volte viene preparato così piccante che può essere ingerito o strofinato sul corpo solo da persone possedute. Il migan è un cibo cerimoniale dolce molto gradito dai bambini a base di sangue sacrificale bollito con zucchero, spezie e platano.


     
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    Per te è quasi rinvigorente.

    Senti il cosmo fluire nel tuo corpo mentre quella bestia muore, senti il sapore della paura e dell'adorazione di Josephine ancora una volta in quella stanza. La sua anima trema e per te è una sensazione così dolce. Dopotutto il terrore, per molti di voi spectre, rende la mietitura più che piacevole, la rende una necessità, uno scopo veicolato dalla volontà di Hades.

    Ma la notte è ancora lunga e in quella città, realizzi, c'è qualcosa di pericoloso, di troppo pericoloso.

    La donna, ormai stanca, ti guarda e ti mostra le braccia avvolte da una piaga orribile. Non è qualcosa di fisico, percepisci una contaminazione proveniente da qualcosa di diverso di una malattia che piega gli umani. O meglio, la sua origine è completamente diversa poiché poche cose ci sono, in questo universo, pericolose quanto il chaos.

    Una piccola macchia è comparsa all'altezza del petto, ma non ne sei consapevole. Non lo sarai finché non sarai colto da un pizzico, un lieve bruciore.

    La piaga è arrivata e la piaga ci ha decimati. I miei figli sono andati e i miei figli non sono più tornati. Si dondola ancora e piange, le lacrime cadono su quella pelle ormai ruvida e secca. Ti affacci alla finestra di quella villa e osservi una città buia avvolta in una pesante foschia.

    La riconosci, è la tua città, è la sua città, la città dei canti e delle risate, dei sacrifici e dell'oscurità. Quanti ricordi ti tornano in mente.

    New Orleans.


    Oltre la corruzione che pregna queste terre ancora come il più profondo dei mali, è apparsa quella che la donna chiama 'la piaga', qualcosa che si diffonde nell'aria e infetta senza distinzioni, portando ad una morte rapida e dolorosa. Sai già che quell'anziana ormai è spacciata, ma per te, Sanmdi, è più difficile. La tua natura e il tuo cosmo ti permettono di resistere a tale piaga alzando la tua aura, impiegando una costante protezione attiva al male che infesta questo luogo ormai completamente rovinato.

    Passa il tempo e puoi sentire, tuttavia, il potere di questa infezione, di questa malattia, diventare sempre più opprimente. Il respiro diventa più pesante e il bruciore si estende, seppur di poco. Adesso è poco più di un fastidio costante. Forse non tanto per liberare questo luogo, quanto più per la tua incolumità, devi trovare un modo di debellare dal tuo corpo questa infezione, queste macchie che continuano ad espandersi con lentezza, per ora.

    Dopo tanto tempo dal momento in cui hai giurato fedeltà al sovrano degli Inferi, capisci che ora puoi tornare al suo servizio, ma porteresti l'infezione che hai addosso anche nel Lost Canvas. Per questo motivo, Sanmdi, realizzi che c'è qualcosa che devi fare: richiamare la presenza dei tuoi figli, seppur lontani.

    Esci in strada e il silenzio più innaturale ha invaso New Orleans, ripercorri le strade delle parate e delle feste ai Lwa, ti addentri nella palude più isolata, tra i cimiteri antichi. Sulle strade immerse nell'oscurità, non manca la presenza della corruzione che forse rende anche più difficile resistere a questa infezione che permea l'aria sulla città.

    Raccogli ciò che ti serve per l'invocazione.

    Sopravvivi.





    _____________________



    Angolo Master

    Immagina che New Orleans per ora sia tipo Yharnam; devi trovare il modo di richiamare la presenza di uno dei tuoi figli per far sapere loro cosa sta succedendo (e soprattutto che sei vivo per ora). Se provi ad invocare lo spirito di Brigitte o di Nibo, non ci riesci.

    Pensalo come un setting survival, devi raccogliere i materiali necessari per il rito di invocazione di un Lwa e devi nel frattempo ammazzare autoconclusivamente i corrotti che trovi in giro. Per ora l'infezione fa l'effetto descritto nel post e resisti bruciando costantemente cosmo.

    Interrompi il post quando cominci il rito :zizi:
     
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    Che strana sensazione gli dava quel nuovo corpo. Incredibilmente leggero e fluido nei movimenti, gli calzava alla perfezione, eppure non era sicuro di sentirsi a suo agio in quella pelle. Era abituato a lottare un minimo per avere il controllo sui suoi chwal. Ridurli all’obbedienza con la ferma imposizione del suo potere era parte del gioco e sentire la loro anima fremere e scalciare sotto di sé in un vano tentativo di ribellione lo compiaceva come poche cose al mondo. Le cavalcature con più nervo e spirito tenace erano le più difficili da domare, ma la soddisfazione di sottometterle al suo volere era impagabile. Troppo facile, così. Certo, la voce tremante di Josephine, nelle sue preghiere cariche di terrore ma così salde nel suo strenuo rifiuto della morte, lo scaldava e lo inebriava più del clairin, ma nemmeno un’offerta così dolce sembrava bastare a placare la sua sete. Il suo cosmo ribolliva vivace tuttavia, per quanto le lusinghe lo alimentassero, non sembravano sufficienti ad alleviare la stanchezza dello scontro appena concluso. Allentò il nodo della cravatta e la sfilò, poi slacciò i primi due bottoni per riprendere fiato. Inspirò a fondo, ma se ne pentì amaramente. Il tanfo della carcassa della corrotta era ancora più rivoltante di quando era viva, se possibile. Con stizza la avvolse in una nuvola di fumo biancastro e in pochi istanti la fonte del suo fastidio fu ridotta a un misero mucchietto di polvere. Si risistemò, ostentando sicurezza mentre rientrava nella stanza in cui aveva lasciato la sua servitrice. Sperò che lei non si accorgesse della ferita al fianco: magari il tessuto nero dell’abito sarebbe bastato a nascondere le tracce di sangue ai suoi vecchi e stanchi occhi.

    Sono qui, bambina

    Oltrepassò il vecchio altare disseminato di bottiglie, boccette, litografie sbiadite e portagioie, ricoperto da uno strato così spesso di polvere da lasciar intravedere appena il rosa del telo di seta che lo ricopriva. Gli ultimi anni dovevano essere stati particolarmente duri per Josephine, se era arrivata perfino a trascurare il servizio della sua amata patrona, a cui aveva dedicato un’intera stanza della sua casa a dispetto di qualunque critica o maldicenza del vicinato. Tra i loro fedeli del continente non era comune esibire simboli così appariscenti tra le proprie mura: molti preferivano presentare le offerte ai templi locali o agli altari dei musei, chi per mantenere una facciata di rispettabilità, chi per avere un pretesto per riallacciare i legami con una comunità sempre più frammentata e dispersa. Lei veniva da un mondo diverso e un pezzetto di quel mondo lo aveva portato con sé quando aveva lasciato Jacmel per trasferirsi in Louisiana con il suo compianto marito, poco dopo le nozze. Pare che il carnevale sia bello anche lì, le aveva sentito dire poco prima di partire, origliando una conversazione che chiaramente non era riservata a lui, e almeno i carri non lasciano al buio l’intero quartiere!

    Papà...

    Le si avvicinò e si accovacciò accanto a lei. Sembrava così piccola lì raggomitolata, spaventata e indifesa. Pareva davvero una bambina nei vestiti di un’adulta. L'ultima volta che l’aveva incontrata doveva pesare quasi il doppio, mentre ora era ridotta a un misero corpicino, un mucchietto d’ossa che rischiavano di polverizzarsi se l’avesse stretta appena troppo forte. Resistere tanto a lungo aveva solo prolungato il suo tormento più del necessario. Il loro tormento. Ma in fin dei conti, anche se tardi, lo aveva liberato e il suo prezioso servigio meritava una giusta ricompensa. L’avrebbe portata via con sé, l’avrebbe reclamata come sua.

    Stava per tenderle la mano di nuovo quando lei con un gesto timido, quasi di vergogna, sollevò le maniche troppo larghe della veste per scoprire le braccia ossute. Non appena ebbe scostato il tessuto, un fetore nauseabondo lo travolse, seguito da una terribile realizzazione. Si era lasciato distrarre dalla corrotta, dai suoi miasmi e dal suo cosmo orrendo e non si era reso conto di trovarsi davanti qualcosa di ben peggiore.

    Fout tonè! Sek, fermo dove sei!

    Stupido.
    Idiota.
    Grandissima testa di cazzo.

    Scattò all’indietro con un balzo facendo istintivamente ardere il suo cosmo con violenza, il cuore che pulsava all’impazzata nel petto e in gola. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Era così palese. Così sbagliato. Un occhio poco attento avrebbe potuto non dare la giusta importanza a quelle ferite. A una persona comune sarebbero potute sembrare il risultato di ustioni molto estese, o il genere di piaghe che segnano la pelle quando si resta per troppo tempo sdraiati senza potersi muovere. Su un’anziana denutrita e disidratata come Josephine sarebbe stato grave anche in quel caso, naturalmente, ma un medico con buoni mezzi mondani avrebbe potuto tentare di aiutarla con qualche speranza di successo. Quei sintomi, però, erano mera apparenza, una reazione ordinaria a un’orripilante e aliena anomalia. E lui, come il più grande coglione dell’universo intero, l’aveva toccata senza pensarci due volte. Non si illudeva di averla scampata, probabilmente sarebbe bastato solo respirare la stessa aria di una persona contagiata, o magari il semplice contatto visivo o un’idea, per quanto ne sapeva. Il prurito che lo tormentava sotto la camicia di sicuro non prometteva nulla di buono.

    Si concentrò sul filo di voce con cui Josephine provava a spiegargli, con uno sforzo titanico per le sue possibilità, ciò che era accaduto alla sua famiglia e ai sopravvissuti con cui avevano avuto contatti nei mesi precedenti. Spesso si perdeva o non era in grado di articolare nulla di udibile, ma anche i segni sul suo corpo, i suoi deboli gesti e la luce del suo sguardo raccontavano una storia. Nelle condizioni precarie in cui si erano ritrovati a vivere, di sicuro quella non era la prima epidemia che avevano dovuto affrontare. Persino loro, però, sembravano essersi accorti che in quella nuova piaga c’era qualcosa di diverso. Non si erano mai sentiti più impotenti di così, pur sballottati nel mare di disgrazie e atrocità in cui erano stati trascinati loro malgrado. Fino ad allora se l’erano sempre cavata. Erano sopravvissuti, distrutti nel corpo, nella mente e nell’anima ma ancora in piedi. Nel giro di un paio di settimane, il caos li aveva fagocitati dal primo all’ultimo.

    Perché non hai chiamato Manman?

    Lei scosse appena la testa.

    Non ha risposto...

    Sanmdi non sapeva se esserne sollevato o meno. La migliore guaritrice della famiglia era senz’altro Brijit, il suo potere sarebbe stato certamente utile ad arginare il contagio. Si chiese se non si fosse esposta per prudenza, nel timore di contaminare la surplice, o se invece avesse risposto alle preghiere di altri fedeli in difficoltà... rischiando più del necessario per aiutarli. Mise prontamente a tacere quel timore irragionevole. Doveva esserci un’altra spiegazione per cui non riusciva a mettersi in contatto con lei e i loro figli. Di certo stavano tutti bene, al sicuro sul Cielo che lei era incaricata di custodire.

    Sospirò, voltando le spalle a Josephine. Sganciò un altro bottone della camicia e abbassò lo sguardo sulla piccola macchia rossa che spiccava sulla pelle scura, appena sotto lo sterno. Era larga poco meno di una falange, ma aveva impiegato solo pochi minuti a espandersi fino a quel punto. Probabilmente anche la stanchezza eccessiva doveva essere un sintomo della malattia, piuttosto che un adattamento mal riuscito al suo attuale involucro. Era impressionante che avesse impiegato così poco tempo a diffondersi in un corpo che bruciava cosmo ai suoi livelli. Che speranze poteva avere un comune essere umano? Una miriade di domande e di scenari possibili cominciarono ad affastellarglisi in testa. Con il caos non potevano esserci certezze né prevedibilità, i ragionamenti logici e le deduzioni sensate non avevano alcun valore. Ogni procedura che gli veniva in mente gli sembrava inadeguata a fronteggiare la situazione. Nel frattempo, un terribile sospetto stava prendendo il sopravvento su qualunque altro pensiero. Se avesse mietuto l’anima di Josephine, avrebbe rischiato di inviare al Tribunale un’anima infetta. Lui stesso, se avesse rimesso piede nel Canvas in quel momento, avrebbe potuto innescare un nuovo focolaio nel bel mezzo della dimensione infernale. Fu a quel punto che si rese conto davvero che non sarebbe riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, in quelle condizioni. Si afferrò la radice del naso e inspirò, imponendosi di non cedere al panico. Normalmente avrebbe avuto altre voci con cui discutere, altre menti con le quali riflettere. La solitudine e il silenzio stavano cominciando a logorarlo. In circostanze diverse avrebbe potuto tentare di indurre una possessione nel corpo di Josephine ma, ammesso che la chwal fosse abbastanza in forze da sopravvivere all’impatto, l’eventualità di un contagio era praticamente una certezza. Avrebbe dovuto percorrere una strada diversa, mutevole e imprevedibile forse quanto il caos, ma per lui ben più familiare: il Grande Cammino, la via della notte e del sogno, in cui ere e mondi distanti possono sfiorarsi. La via dell’illuminazione.

    Si inginocchiò accanto a Josephine, ora accasciata contro la parete senza nemmeno avere la forza per sollevare il capo, il suo respiro un rantolo appena udibile. La trascinò delicatamente e se la caricò in braccio, poi la portò in quella che doveva essere stata la sua camera da letto, premurandosi di non scuoterla più del necessario quando la adagiò sul materasso. Tirò le coperte sulle sue povere ossa tremanti. Sarebbe stato sorpreso di trovarla ancora in vita la mattina seguente.

    Dormi, bambina mia. Solo i più grandi sognatori possono ingannare la morte.

    Le sussurrò, benedicendo la sua anima stremata. Lei gli sorrise appena con gratitudine, poi chiuse gli occhi per l’ultima volta.

    Facendosi luce con il cosmo, Gede lasciò la stanza a passi leggeri. Prima della corruzione sarebbe stato uno scherzo procurarsi l’occorrente per eseguire il rituale. Le componenti erano di una semplicità disarmante, oggetti umili alla portata delle tasche più logore e bucate ma che, riuniti nel giusto stato d’animo e con i gesti appropriati, potevano evocare sogni incredibilmente potenti. Ora, però, in un mondo devastato e divorato dall’incarnazione delle peggiori blasfemie, non sembrava così banale riuscire a racimolare quel poco che gli occorreva. La villetta offriva ben poco di utile: di acqua, cibo, alcool e scorte mediche non c'era la minima traccia e le poche stoviglie spaiate e luride avevano crepe e sbeccature. Fortunatamente, Josephine aveva avuto l’accortezza di conservare in buone condizioni il kivèt e il piatto flottante, riposti con cura nel tempietto casalingo e non profanati da un uso mondano. Il resto avrebbe dovuto procurarselo all’esterno. Prima di lasciare la villetta si assicurò di barricare a dovere la porta d’ingresso e le finestre dei piani inferiori, così da evitare brutte sorprese al suo ritorno. Immaginò fosse sufficiente come precauzione, dato che la casa non era già stata presa d’assalto: se il quartiere fosse stato infestato da bestiacce più agili o più sveglie, di sicuro non avrebbe trovato Josephine ancora viva dopo giorni di assenza dei suoi figli. Recuperato un vecchio zaino logoro, uscì sulla balconata.

    Era da tempo che non vedeva una nebbia così fitta e pesante in città. Aveva un che di lugubre quel velo che avvolgeva le vie silenziose, inghiottendole nel suo gelido candore. Fino a pochi anni prima sarebbe bastato il bagliore delle luci elettriche a rischiarare il quartiere, animato dalle note del jazz e dal profumo di cibo a ogni angolo. A New Orleans persino i funerali venivano celebrati con cortei festanti che danzavano in uno sventolio di ombrelli, bandiere e fazzoletti al suono della batteria e degli ottoni delle second line. Ora, invece, regnava una quiete innaturale che non apparteneva a quei luoghi, una calma infida che poteva preannunciare solo guai.

    Con un balzo fu a terra. I suoi piedi affondarono in uno strato di melma densa, fastidiosamente appiccicosa. In quel punto della città il livello del suolo si era alzato di circa un metro dopo l’inondazione, che si era lasciata dietro una gran quantità di fango e detriti di ogni genere quando l’acqua si era ritirata. I giardini un tempo curati si erano inselvatichiti, soffocati dalle erbacce più tenaci che ne avevano preso possesso e proliferavano senza controllo alcuno. Tronchi divelti, macerie e rottami arrugginiti sporgevano dal terreno, sparsi in maniera caotica in mezzo alla via o infilzati sulle punte delle cancellate di metallo, protesi come giganteschi arti deformi pronti a ghermire chiunque avesse l’ardire di avvicinarsi.

    Si affrettò lungo il vialetto e scavalcò con un salto il cancelletto di ferro battuto. Il terreno era scivoloso dove l’intrico di vegetazione lasciava il posto alla fanghiglia. Le rovine ostruivano gran parte della strada, punteggiata qua e là da profonde buche di forma irregolare. Per quanto possibile cercò di rimanere vicino alle staccionate mentre procedeva con cautela, nella speranza di riparare almeno un fianco. Non si sentiva al sicuro lì allo scoperto, anche se le fronde degli alberi così fitte davano quasi l’impressione di trovarsi al chiuso. Sapeva che la sua traccia cosmica lo rendeva una preda ambita per i mostri che si celavano nella foschia. Gli sembrava di sentirli strisciare ovunque nell’ombra, dietro ogni foglia, in ogni anfratto… sotto i suoi piedi. Affrettò il passo, sperando di mettere più distanza possibile tra sé e qualunque cosa si nascondesse nei paraggi. I quartieri storici, un tempo così familiari che avrebbe potuto percorrerli ad occhi chiusi, gli erano diventati completamente estranei e ostili. In quella cappa di umidità opprimente, l’odore dolciastro e insalubre di decomposizione gli impregnava il naso e gli impastava la bocca. Persino i suoni parevano ovattati, in mezzo alla nebbia, mentre le forme sfumavano e sbiadivano, tinte del viola freddo e sinistro del suo cosmo.

    Gli occorse un po’ di tempo per cominciare a riconoscere qualche dettaglio utile, ma pian piano il quadro iniziava a prendere forma, un tassello dopo l’altro. Giunto a uno spiazzo più largo, si avvicinò a uno dei cartelli per avere conferma di aver preso la direzione giusta. Concentrò un velo di cosmo sottile sulla mano e la passò sulla targa per far dissolvere in polvere lo strato di ruggine e sporcizia che la ricopriva ma, non appena si chinò a leggere, la sensazione di ribrezzo si fece più intensa mentre il fango sotto di lui diventava più instabile. Scivolò di lato appena in tempo: dove un istante prima aveva posato i piedi svettava un braccio lurido e rinsecchito, che terminava in una mano palmata dai lunghi artigli sottili.

    Fout-!

    Arretrò, iniziando a imprecare, ma di nuovo sentì il terreno ribollire e saltò qualche metro più in là per evitare di essere afferrato da un’altra di quelle bestiacce maledette. Improvvisamente il suolo dell’intero spiazzo cominciò a ricoprirsi di bolle, a contorcersi e a spaccarsi mentre, uno dopo l’altro, piccoli corrotti viscidi si trascinavano fuori dalle loro tane sotterranee, sibilando e gorgogliando dagli squarci simili a branchie che si aprivano sui loro colli rinsecchiti, i tondi occhi vitrei puntati minacciosamente su di lui. Con sdegno sferrò un colpo di tacco al più vicino di quei grotteschi uomini pesce, schiantandone il cranio liscio in uno spruzzo di sangue nero e materia cerebrale, poi intrise la carcassa del suo cosmo fumoso, così da discioglierla in un miscuglio di liquami densi e polvere d’ossa di cui prese il controllo. Sferzò i corrotti più vicini con l’orrida melma, puntando al volto con tanta violenza da strappare via la carne, facendola dissolvere in essa, mentre il potere di cui era impregnata faceva avvizzire i loro bulbi oculari. Gli altri, però, non sembrarono intimoriti dalla sorte toccata ai loro compagni e si gettarono verso di lui, spiccando lunghi balzi che li facevano somigliare a una moltitudine di rane deformi. Sanmdi si coprì il viso con le braccia e si scrollò di dosso il branco con un’esplosione. Un bagliore di un viola pallido li illuminò prima che l’onda d’urto li lanciasse tutt’intorno, ma non prima che alcuni di loro fossero riusciti ad affondare artigli e zanne sulla loro ambita preda. Prima che potessero ritentare, si chinò e affondò le mani nella fanghiglia fino a toccare la terra più solida al di sotto dello strato viscoso. Dalle sue dita scaturì una nube di fumo bianco che si espanse per tutto lo spiazzo, penetrando in profondità. Terra, asfalto, legno e acciaio si sgretolarono e si fusero in una mistura appiccicosa, che ai suoi ordini si ammassò ai bordi e si sollevò di colpo, lasciando ricadere i corrotti nella fossa sottostante, solo per ricadere di peso sulle loro teste e sommergerli. Solo una piccola, sottile striscia di terreno fu risparmiata: la sua via di fuga.

    Si fiondò nella direzione opposta da cui era arrivato senza voltarsi indietro. Al suo passaggio, altre braccia raggrinzite emergevano dal fango nel tentativo di placcarlo e trattenerlo. Uno di questi riuscì a strattonarlo e quasi lo fece inciampare, ma lui ebbe la prontezza di rispondere con un calcio e si liberò dalla presa. Saltò sui rottami di una macchina rovesciata e continuò di auto in auto finché i grovigli di erbacce e i cancelli arrugginiti non lasciarono il posto a staccionate di legno marce e alle facciate sporche e scolorite di piccole shotgun house. Alla minima vibrazione, al minimo barlume di cosmo i corrotti anfibi erano pronti a scattare dalle loro tane sotto al fango senza che lui potesse prevedere da dove sarebbe spuntato il prossimo. Per un po’ tentò di tenerli a bada con barriere di energia, ma non sempre era abbastanza veloce da individuarli e intercettarli. Non aveva corso a lungo, eppure si sentiva già in affanno e ancora non riusciva a vedere la fine di quel mare di fango e delle bestie che lo infestavano. Decise di cambiare tattica. Atterrò sul tettuccio di un furgoncino e lo divelse per calarsi all’interno, poi infuse la sua aura nel fango circostante, così da scomporlo in una sabbia sottile che fluì al di sotto del veicolo, liberandolo e sollevandolo rispetto al suolo. Un'onda di polvere sempre più fine si riversò sulla strada, mentre il fumo bianco avanzava, aggrediva la materia inerte e ne faceva nutrimento per il suo potere. La fiumana di terra morta e pulviscolo trascinò via il furgone, seminando una distesa di corrotti sanguinanti che si contorcevano in agonia, spogliati delle loro viscide pelli. Il camioncino, o ciò che rimaneva dell’abitacolo, terminò la sua corsa in fondo alla via, dove il fango, finalmente, si diradava scoprendo l’asfalto, ben lontano dai nascondigli di quelle maledette bestiacce. Aprì lo sportello e barcollò fuori, frastornato. Quell'espediente lo aveva aiutato a fuggire più in fretta, ma lo aveva sfinito e sapeva che, non appena fosse calata l’adrenalina, le ferite avrebbero iniziato a bruciare. Aveva bisogno di un posto più tranquillo in cui riposare.

    Poco distante scorse un capannone che dava su un piazzale asfaltato, sormontato da un’insegna colorata. Si avvicinò alla serranda che faceva da ingresso, su cui si intravedevano macchie di vernice che un tempo dovevano essere stati graffiti, la sollevò e si infilò velocemente all’interno prima di richiuderla alle proprie spalle. Posò la schiena al portone e si lasciò scivolare a sedere, finalmente libero di riprendere fiato. Si tolse il cappello e si passò una manica sulla fronte per asciugarsi il sudore. Il garage, un vecchio den abbandonato, era disseminato di attrezzi da lavoro, componenti meccaniche, assi di compensato e cataste di latte di vernice ormai secca. Davanti a lui, un enorme faccione di cartapesta dall’aria severa faceva da polena a una grossa barca su ruote dalle forme caricaturali, il genere di veicolo che avrebbe svettato tra la folla nelle parate di carnevale.

    Bella faccia da cazzo, pure tu.

    Commentò, ridacchiando tra sé e sé. Si chiese se, magari, tra le scorte del den avrebbe potuto raccattare qualcosa di utile. Si alzò in piedi e si guardò attorno finché, nel disordine, notò una catasta di scatoloni ammassati e flosci, tutti contrassegnati dalla scritta throws a pennarello indelebile, parzialmente scolorita per l’acqua che li aveva inzuppati. Ne scoperchiò alcuni e rovistò tra i trucioli di polistirolo, finché non ne tirò fuori una pila di tazze da caffè viola, verdi e oro di plastica sottile. Esultò. Non erano minimamente paragonabili ai bicchieri cerimoniali di cristallo, tuttavia avevano l’innegabile pregio di essere integri, sigillati e, soprattutto, identici. Magari i due schizzinosi, piccoli ingrati avrebbero pure apprezzato un tocco di colore. Soddisfatto, ficcò in borsa il bottino e una parte dell’imballo per proteggerlo e si diresse verso l’uscita, ma si rese conto che c’era qualcosa fuori posto. Le pupille della polena lo stavano ancora fissando. Non appena incrociò il suo sguardo, il broncio del mascherone si deformò in un ghigno orripilante e sul fianco del carro si accesero lunghi neon sgangherati. Tra i flash intermittenti color magenta, cappucci laceri e grovigli di grosse perle lucide facevano capolino dalle ringhiere del ponte con ticchettii inquietanti e bisbigli minacciosi.

    In un battito di ciglia Sanmdi si precipitò fuori dal den, dietro di lui una cortina di ruggine finissima nello stretto passaggio che aveva aperto come fuga nell’attimo di panico. Risparmiò il fiato, rimandando a momenti meno frenetici la sfilza di imprecazioni fantasiose e bestemmie multiconfessionali che sarebbero state la chiosa perfetta a quello spettacolo grottesco. La sua fuga, però, non durò a lungo. Alle sue spalle, ciò che rimaneva della serranda fu sbalzato via con uno schianto e uno stridio metallico agghiacciante annunciò l’inizio dell’inseguimento. Filamenti di perline frustarono l’aria attorno a lui. Chinò il capo appena in tempo per schivare una violenta scudisciata ma, nell’istante in cui si azzardò a risollevarlo, un sottile cappio gli si strinse attorno alla gola e lo strattonò all’indietro. D'istinto si portò le mani al collo per afferrare la fila di perline e riuscì ad allentarla quel tanto che bastava per non soffocare. Si lasciò sfuggire un gemito quando batté violentemente la schiena a terra. La catenella lo trascinò lungo l’asfalto, mentre altre identiche sciamarono nella sua direzione, aggrovigliandosi lungo le sue braccia per tutta la lunghezza e tirando con forza per costringerlo a mollare la presa. La resistenza fu inutile. Le corde lo issarono su uno degli alberi della barca, appeso proprio sopra la polena che si voltò di mezzo giro all’indietro e poi, con uno sferragliare di ingranaggi male assemblati, si volse verso l’alto, la bocca mostruosa spalancata a mostrare una chiostra di zanne seghettate. Gridolini di esultanza e di scherno accompagnarono la sua discesa verso le fauci del mostro. Un simile oltraggio avrebbe richiesto che si sollevassero legittimi dubbi sulla professione delle loro madri e sulle circostanze del loro concepimento, ma in quel momento gli riusciva piuttosto complicato esprimerli con la giusta enfasi e dovizia di particolari. Si ripromise di argomentare a dovere nel loro epitaffio, una volta sotterrata l’intera krewe e benedetto a sputi la loro fossa comune. Non oppose resistenza quando le catenelle lasciarono la presa simultaneamente e si lasciò precipitare tra le fauci della polena. Un’esplosione di cosmo puro proruppe dal suo corpo proprio mentre si stavano chiudendo a tagliola per tranciarlo in due. L'onda d’urto impattò sulle zanne e costrinsero l’essere a riaprire le mascelle, stridendo di dolore. Riuscì ad atterrare sulla lingua viscida e a darsi la spinta per risalire, aggrappandosi per un istante alle file di perline e sfruttando lo slancio per sfuggire alla portata della testa. Ricadde in piedi su una delle fiancate, davanti a lui una piccola folla di corrotti. Prima che potesse reagire, afferrò il viso del primo incappucciato che gli si parava davanti e, con un unico gesto, lo schiantò così forte sul ponte da mandargli in pezzi il cranio. Immediatamente intrise il cadavere di fumo bianco che lo fece marcire all’istante, poi fece strisciare la melma putrescente sopra alla cortina di perline che ricopriva il secondo della fila. Il corrotto tentacoluto, in preda a dolori lancinanti e forse anche al panico, iniziò ad agitare freneticamente le catenelle nel tentativo di scrollarsi di dosso la poltiglia che fino a pochi istanti prima era stata il corpo del suo simile, ma invano: i liquami gli restavano attaccati e affondavano senza sosta nello strato più coriaceo delle finte perline, fino a scoprire la carne e raggiungere i nervi. Sanmdi approfittò della confusione per agguantare gli arti inferiori ora scoperti del mostriciattolo e tirarli a sé. Senza la minima grazia abbatté la massa di tentacoli contaminati sulle creature circostanti, ammassandoli in un angolo del ponte e aspergendoli di melma. Infine lasciò andare il malcapitato corrotto, trasformandolo da involontario flagello a involontario proiettile. Così disposti, su un solo lato, sarebbero stati più semplici da gestire e da individuare. La luce intermittente degli organi bioluminescenti rendeva ancora più arduo fare affidamento alla vista. Fu solo il ticchettio frenetico sul ponte a rivelargli che i corrotti tentacoluti stavano passando al contrattacco, ma non avrebbe dato loro la soddisfazione di appenderlo all’albero un’altra volta. Il suo cosmo bruciò più intensamente e decine di piccole croci si addensarono attorno al suo corpo in file sovrapposte, il braccio più lungo parallelo al terreno, una selva di punte rivolte a chiunque osasse avvicinarglisi. Le croci iniziarono a ruotare freneticamente attorno a lui mentre si avventava sui corrotti, tranciando tentacoli, spezzando ossa e aprendo squarci nelle carni. Il fumo bianco della sua aura necrotica aleggiava nella luce fredda proiettata da quel turbinare mortifero, insinuandosi in ogni ferita e scavando in esse sempre a fondo e dolorosamente. Il vortice di croci si lasciò dietro un carnaio raccapricciante, una devastazione di arti mozzati e viscere sparse, corpi macellati e miseri resti agonizzanti immersi in una pozza di sangue nerastro e putridume. I liquami marcescenti si animarono a un suo cenno, strisciando ai suoi piedi quasi con fare servile. La polena, però, sembrò intuire le sue intenzioni. Vista la malaparata si voltò con uno scatto rapido e scivolò più in basso non appena lui tentò di bersagliarla con il getto di fluidi mefitici, incassandosi all’interno delle paratie, poi l’intero float accelerò di colpo, dritto verso la casa di fronte, mentre le fiancate lampeggiavano sempre più rapidamente e in modo irregolare. Gede richiamò in tutta fretta la poltiglia putrefatta e la dispose a cupola attorno a sé per schermarsi, quindi si buttò sul ponte per prepararsi all’impatto. Con un tonfo assordante, il carro si schiantò sulla parete dell’edificio, sfondando il muro e penetrando di mezzo metro, poi fece marcia indietro e riprovò una volta, due, tre, spingendosi sempre più a fondo a ogni tentativo fino ad attraversare completamente la casa e a scontrarsi con il muro opposto. Sanmdi sentiva il ponte vibrare sotto di sé mentre mattoni, calcinacci e assi di legno grandinavano attorno a lui. Quando il veicolo arretrò di nuovo per prendere la rincorsa, si azzardò a sbirciare la situazione. Il soffitto dell’edificio si stava incurvando pericolosamente sopra la sua testa e rischiava di collassare da un momento all’altro. Sporgendosi dalla ringhiera notò di avere di fronte l’uscita sul retro, poco più in basso rispetto al ponte del float. Gli venne un’idea. Forse era una follia, ma tanto valeva tentare. Si alzò di scatto e si lanciò giù dal carro in retromarcia, poi schiantò la poltiglia intrisa di cosmo necrotico contro il legno del portone per sfondarlo e consumarlo. A quel punto si voltò. Il float adesso lo stava caricando a tutta velocità, la polena era riemersa dal suo nascondiglio ed era protesa in avanti, pronta ad azzannarlo. Lui non esitò un istante: raccolse ogni stilla dei suoi liquami marcescenti e la scaraventò dritta tra le fauci spalancate del mostro. L'orrido blob attraversò i tessuti informi della creatura, la trapassò da parte a parte. Con un ultimo cigolio, il carro si arrestò e le luci sulla fiancata si spensero definitivamente. Il tetto della casa cedette in quell’istante, mettendo una pietra tombale sull’esistenza miserabile di quell’essere immondo. Esausto, Sanmdi si lasciò cadere in ginocchio. Boccheggiò, affamato d’aria, ma una tosse incontrollabile e violenta gli fece vibrare il petto fin quasi al vomito non appena la polvere del crollo gli riempì la gola riarsa. Con stizza si strofinò gli occhi umidi e si costrinse a rialzarsi per rimettersi in marcia. Non aveva intenzione di darla vinta a quei patetici fantocci né a qualunque volontà armasse la loro mano. L'unico elogio funebre di cui li degnò fu un profondo e sincero bras d’honneur: i suoi sputi di certo non li meritavano.

    Nella parte più interna della città, i segni dell’inondazione apparivano meno estesi rispetto alle zone più vicine al fiume. Cominciò le ricerche da botteghe e negozi, scoprendo con estremo disappunto e ben poca meraviglia che gli anni di razzie da parte dei sopravvissuti avevano risparmiato solo il ciarpame più inutile. Abbandonò presto l’idea di spingersi fino ai quartieri alti, risparmiati dal flagello dell’acqua ma brulicanti di corruzione. Non osò avvicinarsi, nelle sue condizioni. Il quadro che la sua percezione cosmica gli restituiva era frustrante a dir poco. Sarebbe servito ben di peggio per intimidirlo e farlo desistere, in circostanze diverse, ma quel corpo infermo aveva i suoi limiti e lui doveva accettarlo, suo malgrado. La malattia continuava a strisciare subdolamente sotto la sua pelle, avanzava inesorabile nonostante il suo cosmo ardesse con forza per tenerla a freno. Sprecare sangue ed energie preziose in risse inutili sarebbe servito solo a renderlo più vulnerabile. Non si illudeva di scampare qualche scaramuccia qua e là, tuttavia fu un sollievo scoprire che la Mid-City, a parte qualche sparuto gruppetto di improbabili pennuti festaioli un po’ troppo espansivi e bande di cenciosi macrocefali sul piede di guerra, era praticamente disabitato. Sanmdi approfittò dell’apparente tregua per mettere sotto sopra mezzo quartiere, setacciando i piani superiori di ogni casa su cui non sembravano essersi già accaniti superstiti, corrotti o intemperie. Saccheggio dopo saccheggio, una piccola tanica di acqua distillata, un sacchetto di ovatta e un pacchetto di sigarette finirono nello zaino insieme alle tazze. A mano a mano che avanzava verso Tremé, si rese conto che non era casuale il fatto che non fosse stato ancora assalito da una torma di scocciatori: le strade erano disseminate di trappole. Cappi, tagliole e buche irte di spuntoni attendevano a ogni angolo che qualche incauto invasore mettesse un piede- o qualunque altra appendice equiparabile- in fallo. In mezzo alla nebbia non era semplice individuarle tutte e lui stesso riuscì a evitare di finire appeso o infilzato all’ultimo istante solo grazie ai suoi riflessi pronti. Qualche corrotto, invece, non era stato altrettanto fortunato. Eppure, sembravano congegni più utili a tenere alla larga gli esseri umani, piuttosto che quegli esseri immondi.

    La vera ragione per cui il quartiere era pressoché deserto non tardò ad arrivare. Una leggera impronta cosmica aleggiava nelle vicinanze, appena percepibile, quasi sbiadita, ma familiare. Gede provò a seguirla e, quando fu abbastanza vicino da poter capire cosa la stesse emanando, restò decisamente sbalordito. Una selva di pali di ferro conficcati in profondità nell’asfalto si ergeva davanti a lui, ornata da macabri addobbi di corpi squarciati, viscere pendenti e teste mozzate. Nessuno di quei macabri trofei apparteneva a un corpo umano. Tra i resti marcescenti dei corrotti pendevano piccoli amuleti intrecciati la cui fattura apparteneva chiaramente alla sua gente; era da lì che proveniva la traccia. Dietro la palizzata, altre file di spuntoni acuminati e pile di corpi mostruosi completavano il macabro spettacolo. Gede chinò il capo e si toccò il cappello in un cenno di genuina ammirazione. Chiunque si fosse preso la briga di conciare dei corrotti in quella maniera ed esporli come spauracchio doveva avere stomaco forte e palle d’acciaio, oltre che troppo tempo libero a disposizione. Tra i suoi fedeli non erano in molti quelli che avevano chiesto di restare a New Orleans, quando sua moglie li aveva invitati a unirsi a lei e ai loro figli nella dimensione infernale, ma tra quei pochi audaci o sprovveduti ne ricordava almeno una dalla pelle abbastanza dura da tener testa a quelle creature. Si chiese se l’installazione d’arte post-apocalittica fosse opera sua: in tal caso, a momento debito, le avrebbe offerto come minimo un giro di rhum. Per fortuna né lei né altri sopravvissuti sembravano essere nei paraggi, al momento. In compenso, la signora o chi per lei si era premurata di lasciargli un altro piccolo regalo. Oltre quella carneficina mascherata da rituale di protezione poteva percepire un’altra aura tenue, resa fioca dallo scorrere inesorabile del tempo ma per lui inconfondibile. La sua fame sopita si risvegliò con prepotenza. Un brivido di piacevole impazienza fece vibrare appena il suo cosmo e per un attimo sembrò dimenticare la prostrazione della malattia. Per lui era come un faro in quella fosca e gelida notte.

    Gli ultimi abitanti di Tremé si erano dati parecchio da fare per rendere vivibile un quartiere che, almeno in apparenza, era insalvabile. Terrapieni ora fitti di vegetazione erano stati eretti per fermare le nuove inondazioni e fossati erano stati scavati per tenere lontani eventuali ospiti indesiderati. Sulla terra portata dall’alluvione ora crescevano orti. Alcune strade del quartiere erano state liberate dal fango, le case più solide riparate. C’era persino un pollaio in uno dei cortili. Tutta la fatica e i sacrifici di quelle persone erano serviti solo a condurle a una trentina di misere tombe scavate di fresco, contrassegnate da croci sgangherate e qualche nome che nessuno avrebbe più ricordato. L’odore della pestilenza saliva dai mucchi di terra smossa e infestava l’aria circostante. Il piccolo cimitero era stato scavato a qualche isolato dal cortile di un tempio che lui ben conosceva. Non immaginava di trovarlo ancora in piedi, dopo l’inondazione. Agli occhi ciechi di un profano, quella bottega sgangherata e pittoresca sarebbe sembrata tutto fuorché un luogo sacro già in periodi migliori: l’altare era stato relegato a uno stanzino nel retrobottega, mentre buona parte del locale, quella di facciata, era un tempo dedicata al venale smercio di oggettistica per turisti boccaloni che ricercavano il brivido del macabro e un morboso, sconsiderato contatto con la magia nera. In un modo o nell’altro, anche la schiera di sciocchi curiosi che trattava sul prezzo di puntaspilli antropomorfi e presunti feticci maledetti contribuiva a donare potere a lui e alla sua famiglia. Suo figlio Sekreté non apprezzava particolarmente questi metodi subdoli per ottenere venerazione, ma era stato costretto ad ammettere che negli ultimi anni avevano raggiunto una certa popolarità anche grazie a certi mezzucci che prescindevano dalla formalità dei riti. Gede, dal canto suo, trovava estremamente divertente osservare autoproclamati scettici e timorati di Dio prostrarsi al suo cospetto quasi per gioco, solo per ritrovarsi invischiati in faccende che non comprendevano appieno. Dopotutto quella era una città mutevole e trasformista e, se la sua famiglia intendeva prosperare, doveva adattarsi a forme di devozione meno convenzionali.

    Prima che il mondo andasse in malora, anche Mambo Kraze Malheur avè Bèk ak Grif- Kraze Malheur per amor di sintesi, al secolo Louise Duval- aveva indossato la maschera della ciarlatana. Spennare visitatori ingenui di giorno propinando loro candele e filtri d’amore era un ottimo modo per evitare attenzioni indesiderate sulle sue attività notturne. L’aria da abbindolatrice di gonzi che sfoggiava con tanta convinzione, infatti, era la miglior copertura per le sue mirabolanti doti da bokor, capacità che si erano rivelate decisamente utili dopo che la corruzione aveva fatto la sua comparsa. Disgraziatamente, non sembravano essere state altrettanto efficaci per contrastare il caos. La sua bottega era disseminata dei medicamenti e degli amuleti con cui aveva tentato di ostacolare senza successo l’epidemia. Alla fine, si doveva essere resa conto di non potercela fare con le sue sole forze. Gede fece scivolare nella borsa un paio di boccette di oli essenziali delle sue scorte e una scatolina di fiammiferi trovata accanto a un fascio di candele consumate: a lei non sarebbero più serviti e lui si ripromise di farne buon uso.

    Nel cortile deserto risuonava ancora l’eco delle invocazioni della sua comunità, una disperata richiesta d’aiuto che non aveva ricevuto risposta. Attorno al potomitan, il riflesso sbiadito di balli frenetici sembrava tingere l’aria tetra degli svolazzi viola delle vesti cerimoniali, il ritmo incalzante dei tamburi e il sibilo dell’asson turbavano la quiete della notte. I vevè che avevano tracciato sul cemento erano stati cancellati dai passi di danza, ma l’odore di caffè rancido, tabacco bruciato, rhum e sangue del sacrificio ancora intatto non era mai andato via, sospeso tra le maglie appena allentate di una realtà che sfumava quasi impercettibilmente nel sogno. Il nome che avevano chiamato, cantato e gridato invano era quello di Brijit. Gede scacciò con forza i presentimenti nefasti che tornavano a riaffiorare. Il rifiuto doveva essere stato una scelta consapevole di sua moglie. Di certo non si sarebbe offesa, se avesse approfittato delle offerte che i loro fedeli le avevano dedicato. Dita di fumo scivolarono sul pavimento a raccogliere ogni briciola di cibo, ogni goccia di alcool e sangue, consumandole in un istante con il loro tocco impalpabile. L’energia onirica iniziò a fluire nelle sue stanche membra, rinvigorendole e rinfrancandole nel suo gradevole tepore. In quel momento il tempo parve fermarsi per un istante, congelato nell’improvviso silenzio che era calato nuovamente nel cortile, pesante e crudele nella sua concretezza.

    Finalmente, Sanmdi si concesse di rifiatare. Si sedette sul gradino del potomitan, la schiena indolenzita appoggiata al palo, godendosi qualche istante di calma. Anche se il potere assorbito dal rituale era modesto, si sentiva decisamente meglio. La brama di sangue, però, non si era placata. Quel misero assaggio aveva reso la sua fame ancor più pressante, tanto da avere l’impressione che l’odore ferroso impregnasse ancora l’aria circostante. Si chiese cosa ne fosse stato della sua bokor. L’infezione doveva aver toccato anche lei e i suoi poteri non l'avrebbero protetta per sempre. Forse era troppo tardi per ringraziarla. Sorrise tra sé e sé, con una punta di amarezza. Alla fine era stata lei a offrirgli da bere, non viceversa. Probabilmente non avrebbe avuto occasione di ricambiare, e non solo perché il rhum o qualunque altro liquore sembrava introvabile in quella zona. Chiuse gli occhi, concentrandosi sul suo sesto senso per sondare i dintorni. L'unica presenza vitale che riusciva a percepire era il brulicare della turma degenere che si ammassava lungo il perimetro del quartiere, forse in cerca di un varco per raggiungerlo o semplicemente in attesa che lui si azzardasse a mettere piede al di fuori dell’area isolata. Del cosmo della donna non sembrava essere rimasta nemmeno una flebile scintilla. Fu qualcos’altro, però, a catturare la sua attenzione. L'odore di sangue non lo aveva immaginato affatto.

    Si alzò, ignorando le proteste del suo corpo malconcio. La curiosità era quasi più forte del bisogno fisico. Non dovette cercare a lungo prima di imbattersi nelle prime tracce. Nascosta solo dalla pesante foschia, una grossa gabbia di travi d’acciaio intrecciate tra loro era stata lasciata aperta. Scie scure macchiavano l’asfalto poco distante. Al buio non era possibile distinguerne il colore con precisione, ma era pronto a scommettere che, alla luce del sole, non gli sarebbero apparse nere. Un vago sentore dolciastro e alcolico impregnava ancora le sbarre.

    Bestiola mia, che hai combinato…

    Era genuinamente intrigato dalla cosa. Non aveva il minimo dubbio su cosa si sarebbe trovato di fronte una volta giunto a destinazione. Non esitò nemmeno per un istante. Sapeva perfettamente dove si stava dirigendo. In tutta la città un’era un solo luogo così intriso di potere da essere adatto a un rituale del genere. I cancelli del cimitero monumentale appena fuori dal Tremé erano spalancati, quasi stessero aspettando il suo arrivo. Un passo oltre la soglia e fu accolto dal riverbero di pianti e grida, di suppliche inascoltate e di fredda crudeltà. Né musica né canti echeggiavano tra le vecchie tombe crepate e cadenti, solo cupa angoscia e un terrore folle al cospetto di un inesorabile presagio di morte, in bilico sopra un baratro di disperazione che sembrava non avere fine. Ne seguì la scia, preda di una smania che stentava a contenere. Un’offerta così invitante era rara da ricevere.

    Non aveva dubbio su quale sepolcro avesse scelto la sua servitrice per mettere in atto i propri biechi propositi. Anni e anni di pellegrinaggi, omaggi e preghiere avevano eroso a poco a poco il confine tra il mondo della materia e quello del sogno, rendendolo impalpabile ed evanescente. Il corpo di una delle sue figlie era seppellito là sotto, una delle più amate, venerate e temute in città. Al cospetto della tomba disseminata di croci, nove corpi giacevano disposti a raggera, polsi e caviglie segnati dalle corde, le gole tagliate così a fondo da rasentare la decapitazione, la ferocia della loro carnefice scolpita a fondo sui volti pallidi ed emaciati. Non erano esseri umani, nonostante le apparenze non lo erano più. Le loro fattezze non erano mutate, ma una metamorfosi atroce ne aveva piegato l’essenza a un livello più intimo e profondo. Due parole e poche gocce di alcool, tanto doveva essere bastato. Galli neri. Erano stati battezzati come animali, e come tali erano stati sacrificati. A vegliare sulla distesa di cadaveri, una figura ossuta sedeva appollaiata sopra al sepolcro. Grossi artigli da rapace la ancoravano al tetto, conficcati a fondo nei mattoni. La pelle le ricadeva addosso in maniera scomposta, quasi fosse un abito troppo largo indossato senza cura, lasciando intravedere i fasci di muscoli sottostanti. La colonna vertebrale sporgeva dalla schiena in una cresta aguzza. Mascella e mandibola erano protese in avanti, deformate in un lungo becco ricurvo. Impronte di bruciature segnavano i lati della tomba su cui si erano posate le sue grandi ali, ora ridotte a lunghe dita parzialmente fuse e irrigidite. Non era riuscita nemmeno a ritrasformarsi completamente prima di esalare l’ultimo respiro. Era morta con le sembianze di una bestia notturna, invocando il nome di Brijit. Sanmdi raccolse la bottiglia di clairin semivuota lasciata alla base dell’arca, ne spruzzò qualche goccia ai punti cardinali e versò il resto a terra. Ormai non c’era molto altro che potesse fare per lei.

    Ti ringrazio, Kraze Malheur. Il tuo sacrificio non sarà vano.

    Il suo cosmo si avventò con foga sui corpi delle bestie sacrificali, impaziente e vorace. Era un vero peccato divorarli solo in senso lato ma, anche se i segni della malattia non erano visibili sulla loro pelle, non poteva essere sicuro che non incubassero di peggio. Un così lauto banchetto non gli sarebbe ricapitato tanto presto. Mentre il silenzio ripiombava nel cimitero, l’incubo generato da quell’atto sacrilego andava a saziare la sua fame. L’ultimo corpo a dissolversi fu quello della sacerdotessa. Tutto ciò che rimase di lei fu la bottiglia di rhum ancora sigillata che teneva in grembo, l’ultima offerta che avrebbe dovuto affidare direttamente alle mani di Brijit. L’ultimo componente per il rituale. Gede la raccolse e la infilò in fretta nello zaino. Reclamare il sacrificio aveva indebolito la barriera, perciò i corrotti non si sarebbero fatti attendere a lungo.

    Il ritorno non fu privo di rischi né di seccature. Il sacrificio aveva alleviato almeno un po’ la fatica e reso il suo corpo un po’ più reattivo, ma con quelle bestiacce malefiche che avevano ripreso a tallonarlo appena uscito dal cimitero ebbe il suo bel daffare. La strada attraverso il quartiere francese era la più breve per arrivare alla villetta, tuttavia aveva sottovalutato quanto fosse disastrata quella parte della città. Lì l’acqua aveva sradicato interi edifici e li aveva trascinati ben lontano dalle loro fondamenta, creando improbabili torri pericolanti di macerie e scheletri di abitazioni che minacciavano di crollare al primo spirar di vento. Le stradine laterali erano inagibili, mentre quelle principali pullulavano di uomini pesce e mostri serpentiformi. Quando poté camminò sui tetti più solidi per sfuggire alle creature più impacciate, ma la distanza tra gli edifici e la scarsa visibilità lo costrinsero presto a rimettere i piedi a terra. Nel Garden District non poté più esimersi dal dispensare un po’ di sana violenza agli occupanti abusivi del quartiere: se li avesse lasciati liberi di scorrazzare in giro, avrebbe rischiato di ritrovarseli addosso in momenti decisamente poco opportuni. Si azzardò a rincasare soltanto quando fu certo che ogni singolo corrotto dell’isolato fosse morto, sepolto e completamente putrefatto. Josephine respirava appena, quando Sanmdi rientrò. Era onestamente stupito del fatto che avesse resistito fino al suo ritorno. Le accarezzò la fronte, avvertendola calda sotto le dita. Lei non parve nemmeno accorgersene.

    Recuperò tutto l’occorrente e iniziò ad allestire il rituale nella stanza accanto. Tirò un grosso sospiro di sollievo quando, svuotato lo zaino, trovò le bottiglie ancora integre. Le corse e le schermaglie sulla via del ritorno lo avevano costretto a bruschi scossoni che, per fortuna, il polistirolo aveva attutito egregiamente. Solo il pacchetto di sigarette era un tantino sciupato ma, in fin dei conti, il tabacco andava bruciato in ogni caso. Riempì d’acqua il kivèt e cominciò a preparare gli stoppini sul piatto, posizionandone uno al centro e altri sei tutto attorno, poi versò l’olio profumato per impregnarli. Accanto alla bacinella aveva preparato le tazze. Tre erano state raggruppate in un angolo, riempite allo stesso, identico livello con una precisione assoluta, mentre un’altra, più piena, aveva il posto d’onore davanti al kivèt. Se i due smorfiosi avessero osato protestare, li avrebbe mandati a parlare con il diretto interessato. Quando sfregò il fiammifero sulla scatola, un lieve odore di zolfo si diffuse nella stanza, appena percepibile sotto l’aroma di menta, lavanda e rosmarino. Lo avvicinò solo allo stoppino centrale, poi usò quello per accendere tutti gli altri. Appena fu certo che il piatto galleggiasse, lo lasciò andare.

    Al nostro Signore, il Sonno, che alleggerisce il peso dei nostri giorni e rende più brevi le nostre notti.



    La sua voce era debole, arrochita dalla fatica e dal fiato corto, ma si sforzò di intonare il canto come Brijit gli aveva insegnato.

    Affinché apra i nostri occhi e ci insegni a vedere oltre ciò che essi ci mostrano
    E li chiuda di fronte a ciò che è insignificante, così che il nostro cammino ci appaia chiaro.
    Affinché risvegli i nostri istinti, così che possiamo godere di ogni sensazione che il mondo ci offre.
    E sopisca la nostra ragione per farci comprendere ciò che essa ci preclude.
    Affinché ci renda vigili con le nostre paure, pronti ad affrontare ogni pericolo,
    E ci conceda l’audacia per abbatterle, così che coloro che amiamo possano dormire sereni.


    Buon Signore, aprite le porte per me e lasciatemi entrare o serratele se il vostro giudizio riterrà opportuno altrimenti.



    Con il dito appena inumidito di alcool, tracciò sul pavimento il vevè dei gemelli.

    Marassa, Dosa, Dosu, invoco le vostre benedizioni,
    Marassa, Dosu, Dosa, la mia carne è fragile e il caos la reclama.
    Marassa, Dosa, Dosu, una vostra sorella soffre con me,
    Marassa, Dosu, Dosa, permetteteci di ritornare al sicuro e in salute.



    Sanmdi esitò un istante. La bottiglia non era ancora vuota. Aveva abbastanza rhum per un’ultima invocazione. Versò il resto dell’alcool in un’ultima tazza e disegnò un altro simbolo sotto quello dei suoi figli. Non poteva lasciare nulla di intentato. Il fatto che non avesse risposto ai loro servitori non implicava necessariamente che sarebbe rimasta in silenzio anche con lui.

    Amore mio, cuore mio, luce del mio cammino,
    Se puoi sentirmi, onorami con la tua voce.
    Se sei al sicuro, mandami un segno.
    Se hai bisogno di me, chiama il mio nome.



    Le mani gli tremavano quando aprì il pacchetto di sigarette. Ne erano rimaste giusto cinque: una per il Signore, tre per i gemelli, una per sua moglie. Le accese insieme e lasciò che il fumo si spandesse per la stanza mentre la luce degli stoppini, lentamente, si affievoliva. Se ne pentì non appena il tabacco iniziò a bruciare ma resistette, tra un colpo di tosse e l’altro. Quando l’ultimo mozzicone si spense, chiuse la finestra e si sdraiò accanto al kivèt. Il sonno lo rapì non appena chiuse gli occhi.


    h8aMTzT
    narrato parlato pensato

    U4wVnsq
    nome Sanmdi
    energia Verde
    surplice Non pervenuta
    casta Spectre
    fisicamente 'Na chiavica :zizi: Malattia del caos in corso, contusioni, lividi e graffi su tutto il corpo, tremendamente stanco
    mentalmente Voglio andare a casa, parte 2 :zizi:
    riassunto azioni Raccolgo le componenti in giro per la città e metto in atto il rituale :zizi:

    Ou se pousyè, e w ap retounen nan pousyè
    [Cosmo poderoso: aura necrotica]
    Venerato dai vodouisant come divinità della morte e custode delle sepolture, non si limita ad accompagnare i mortali verso il destino che, salvo imprevisti, attende tutti loro, ma si assicura anche che i suoi fedeli defunti restino tali e che a nessuno venga in mente di farli saltar fuori dai sepolcri sulle loro gambe, vivi o quasi. A questo scopo tornano utili le capacità distruttive del suo cosmo, di aspetto e consistenza simile a quella del fumo di tabacco, in grado di decomporre tutto ciò che tocca, mutando la materia in fluidi putrescenti o disgregandola in cumuli di polvere o cenere: efficace per far sparire in fretta il contenuto di una tomba o, meglio ancora, un incauto profanatore. L’improvvido furfante in questione non si ritroverebbe semplicemente a decomporsi tra atroci sofferenze mentre ancora respira, ma avrebbe seri problemi a tentare la fuga, logorato dalla stanchezza oltre che dalla perdita degli arti. Per Gedé è, inoltre, possibile prendere il controllo della massa in putrefazione, manipolandola secondo la propria volontà.


    Men anpil, chay pa lou
    [Trasformazione]
    [Bloccata]


    Tecniche
    Kondi l ale lan simityè!
    La croce, simbolo della congiunzione tra il mondo materiale e quello ultraterreno, è in assoluto l’effige più associata a Gedé e quella di cui apprezza di più fregiarsi, tanto da sfoggiarla anche in combattimento. Il Barone può plasmare il suo cosmo in quella forma ottenendo una sola o una schiera di croci dai bordi taglienti e le punte acuminate, ricoperte da un alone del suo fumo bianco disgregante, utili per ferire quanto per creare barricate dietro cui ripararsi. Se è uno dei suoi figli ad indossare l’armatura, può scegliere di impregnarle ulteriormente del proprio potere per aggiungere effetti secondari utili a rafforzarle.


    Note per secchioni
    Cercherò di essere breve, che questo post è già infinito di suo :zizi:

    Nel vodou, sacerdoti e bokor agiscono con metodi diversi: i primi sono guide spirituali e intermediari con il mondo dei lwa, i secondi sono stregoni praticanti di magia nera. Spesso, tuttavia, i bokor sono anche sacerdoti. La trasformazione bestiale a cui ho accennato nel post è una pratica legata proprio alla magia nera. I sacrifici umani sono testimoniati (molto, molto raramente) solo in ambito settario, generalmente legati al culto di Mèt Kalfou (a cui si offrono persone battezzate come cani o maiali).
    Infine, rituale che ho scelto di rappresentare è quello dell’illuminazione, che serve a invocare sogni potenti per avere guida o consiglio :zizi: Normalmente si accompagna a un canto rivolto più o meno a tutto il pantheon vodou, ma qui ci rivolgiamo ai piani alti perché siamo raccomandati. Ovviamente la preghiera a Hypnos è totalmente inventata.




    Edited by Elkade - 30/4/2024, 10:32
     
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    E' la preghiera a Brijit che ti fotte. Per un attimo ti manca l'aria e gli effetti della malattia su di te sembrano intensificarsi. Bruci dall'interno, e quasi perdi la concentrazione: senti odore di marcio, hai il sapore metallico del sangue infetto in bocca.
    Poi la materia freme, scintillando come coperta di rugiada, o di miele. Tutto si fa più lento, e al tempo stesso veloce. Il vento spazza i resti del tuo rituale, e per un secondo hai la pelle d'oca. I Marasa sono capricciosi, tremendamente capricciosi e volubili. Un solo errore, e potresti aver sprecato quello che hai così duramente cercato.

    « Gade kiyès kap rele! Guarda un po' chi chiama! »

    Una voce, in entrambe le orecchie allo stesso momento. Bussano, e lo fanno forte e prepotente.

    « Ti aspettavamo al varco,
    vakabon che non sei altro. »

    « Qui fanno il tifo per te,
    non sappiamo se te lo meriti. »

    « Sai che rottura? Quanto ci hai messo. »

    « Dakò dakò ci pensiamo noi. »


    Senti il potere dei gemelli pervaderti. La tua pelle brilla di sigilli dorati, che si concentrano sulle manifestazioni della malattia e stringono come cappi, lasciano profondi segni che sanno di carne e spirito bruciati. Fa un male assurdo, e senti un lievissimo rancore nel fatto che non ti risparmino il dolore.

    Le tue orecchie ronzano e per un secondo quasi perdi l'equilibrio. La vista sfarfalla, e per un secondo guardi gli effetti della malattia...la sua manifestazione. Perché hai questa sensazione così orribile?

    « Tripotère ti dice di stare attento. »

    « Ora puoi chiamare chi vuoi, ma non metterci una vita, questo macello è difficile da contenere. »

    « Costa anime, già. »

    Hai la mente più rischiarata ora. I sigilli sono ancora in atto, ma sei rinfrancato e lucido, ti guardi attorno, e finalmente ciò che ti sta rosicchiando il retro del cervello si fa lampante. E' alterata, profondamente più radicata e attiva di prima...

    Tu hai già visto questo orrore.
    Era il 1944...e tu avevi risposto a una chiamata molto accorata.

    Un giovane medico, che vi ha promesso tutto se stesso.

    Su4sahH

    Ciao :azd:

    La traccia è chiara abbastanza? Hai un attimo di MOMENTO VERY BRUTTO quando invochi il nome di Brijit, ma per fortuna hai fatto tutto bene e i gemellini pestiferi arrivano. Ti sigillano gli effetti della malattia all'atto pratico (senti una traccia MOLTO più potente di loro), permettendoti di chiamare chi vuoi senza paura.
    La cosa non sarà eterna, devi arrivare alla fonte del problema. In compenso però riesci a mietere l'anima di Josephine senza problemi :zizi:

    Se chiami Sek, ti verrà più facile che il saccentone ti ricordi che tu questa malattia l'hai già vista...ed è quando ti ha chiamato un certo François Duvalier. La cosa ti viene in mente anche se non lo chiami.

    Mi introduci come hai preso possesso di quello che è diventato Papa Doc?
    ▼ DM's Corner


    Edited by ~S i x ter - 29/4/2024, 10:19
     
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    III
    9aLIhLT


    Dietro le palpebre serrate, vedeva ancora i lumicini danzare tra le volute di fumo grigio che salivano a spirale verso una volta di stelle. Il caldo bagliore delle piccole luci fluttuanti tagliava ombre nere e affilate che guizzavano come fossero vive. Le note del suo canto le rendevano inquiete.

    Amore m̶i̷o̵, c̷̡̠͐ȕ̵̢̼̻̠͜o̴͕̥̝̐r̸̗̜̿ȩ̶̡̧͖̫̿̃̄͒̑̿̚ m̶͙̣̱̞͓̙̯̖͚̦̃̈͛̈̐͌̾̑͂͌̀̽̕̚ͅi̸̧̢͚̺̖̱̘͉͖̩͈̖͈̹̙͈͒̔̓͐̔͑̃̓̊̃̊̀͗̏̇͘͠o̸͙̯͔̯̠̝̼̱̞̰̫̔́͌͐̒͂͗̈̆͘͠...



    La sua voce risuonò dissonante e distorta. Il respiro gli si mozzò all’istante. Ogni altra parola fu soffocata nel dolore mentre un calore feroce affondava le sue zanne roventi fin dentro le sue viscere. Boccheggiò, affamato d’aria. Sentiva i miasmi ripugnanti della malattia risalirgli la gola e lo stomaco ritorcersi in un conato di disgusto e di panico. Gocce di sangue fetido tinsero l’olio di un rosso tenue. Chino sul bacile si strinse nelle spalle, le unghie affondate sotto la pelle fino a lacerarla, rivoli caldi che scivolavano lungo le braccia nude. Svegliati, si ripeté, svegliati adesso. La cenere volteggiò in una patina di luce dorata, le tazze ormai vuote si infransero sul pavimento come fatte di vetro e sparirono in un turbine di polvere colorata.

    Fu il coro canzonatorio dei gemelli a riscuoterlo dalla spirale di sofferenza in cui stava precipitando. Quel tintinnio assillante e molesto gli sembrò il suono più dolce e melodioso del mondo intero... salvo ricredersi nel giro di un istante. Disegni rozzi e infantili si intrecciarono al suo corpo e alla sua anima penetrando come lame arroventate, linee color dell’oro tracciate con calcolata perfidia e un sadico compiacimento. Non tentò nemmeno di indovinare cosa li avesse stizziti a tal punto, probabilmente nemmeno c’era una risposta giusta. Per quelle due piccole canaglie, qualunque pretesto era buono per avanzare pretese irragionevoli e millantare oltraggi imperdonabili al rifiuto di assecondare le loro stravaganze. Tutto sommato gli era andata bene: erano di buon umore e, soprattutto, in perfetta sintonia. Anche se sapeva di aver guadagnato il loro favore, si guardò bene dal lasciarsi sfuggire una singola parola di protesta. Con loro avrebbe fatto i conti quando non sarebbe più stato in balìa dei loro capricci. Quantomeno avevano avuto la decenza di riferirgli le raccomandazioni di Sekreté, prima di andarsene.

    Riaprì gli occhi non appena i due marmocchi insolenti si furono congedati. I muri della stanza avevano appena iniziato a tingersi delle sfumature indaco della prima alba. Doveva essersi addormentato giusto il tempo necessario di incontrare i gemelli, forse anche meno. Il tempo del sogno, in fondo, scorreva in modi imprevedibili. Si issò a sedere, ancora stordito. Nella penombra notò che tutte le tazze erano state svuotate fino all’ultima goccia, persino quella di sua moglie. Stavolta non poteva illudersi che fosse un buon presagio. Le aveva chiesto di mandargli un segno e per poco non ci restava secco. I due malandrini avevano fatto un ottimo lavoro nel frenare l’avanzata repentina della malattia, troppo perché fosse solo opera loro, ma i sintomi si erano estesi parecchio prima che riuscissero a intervenire. La macchia rossa sul petto stava degenerando in un’ulcera e anche le ferite provocate dai corrotti erano terribilmente arrossate. Si levò la giacca per controllare meglio. Piccoli bozzi purulenti si stavano gonfiando sul petto e le braccia e cominciava a sentire le nocche indolenzirsi. Finché aveva i sigilli addosso sapeva che non si sarebbe aggravata velocemente, ma già così faceva davvero impressione. Aveva sperato di non doverci avere a che fare mai più, e invece si era ripresentata in una forma diversa, più aggressiva e pervasiva. Tossì e sputò un grumo di sangue. L'ultima volta che ci aveva avuto a che fare, quella roba non si attaccava ai polmoni e, soprattutto, non uccideva così in fretta. Se persino una delle sue bestie notturne era arrivata al punto di soccombere, adesso era diventata davvero temibile.

    Raggiunse Josephine nella camera da letto. Anche sulla sua pelle spiccavano gli scarabocchi dorati dei Marassa. Non le aveva sentito emettere un gemito, perciò non dovevano essersi accaniti su di lei quanto avevano fatto con lui. Si inginocchiò accanto a lei e le prese la mano, poi le sussurrò all’orecchio.

    Ti porto a casa, bambina.

    Sentì le dita ossute della donna chiudersi appena sulle sue.

    Reclamo quest’anima come figlia mia. Sekreté, prenditi cura di lei.

    I sigilli tremolarono appena, poi si spensero quando la sua anima fu finalmente libera. Tra le sue mani, il corpo minuto di Josephine si dissolse in polvere.

    ✳✳✳



    Pale, chwal ou!

    Il piccolo uomo dagli spessi occhiali tondi era sbiancato di colpo, non appena aveva sentito la sua cavalcatura pronunciare quelle parole. La voce era diversa da quella di oungan Nazaire, che gli aveva fatto il favore di prestargli qualche minuto il vecchio ronzino che aveva per corpo. Il timbro nasale era assolutamente inconfondibile per chi avesse frequentato certi ambienti e il dottorino l’aveva riconosciuta all’istante. Probabilmente non si aspettava di essere ricevuto così presto, né contava di avere un colloquio con lui a quattr’occhi- o a sei, considerato lo spessore dei fondi di bottiglia che portava sul naso. In realtà, c’era un altro paio d’occhi ad osservarli. La moglie del dottore, però, sembrava piuttosto impegnata a cercare di tenere strette le redini sul suo bel corpicino smilzo. La testa le cedeva, gli occhi le si chiudevano senza che potesse controllarli o scattavano in altre direzioni senza alcun preavviso. Stava provando a mantenere il controllo con lunghi, profondi respiri, ma presto aveva iniziato a boccheggiare, in preda all’agitazione.

    Non scalciare Simone, ti fai male...

    La aveva avvertita Gede con noncuranza, inforcando gli occhiali da sole che il buon Nazaire aveva avuto cura di fargli trovare in tasca e calcando sulla testa il vecchio cilindro logoro dell’oungan. La donna, se possibile, aveva iniziato a respirare ancora più in fretta.

    Lasciala salire. È più facile per entrambe, mia cara.

    Si era arresa, alla fine, ma non per sua scelta. Il corpo dell’infermiera era diventato floscio per un istante. Lui aveva proteso una mano e le aveva afferrato la vita, tirandola a sedere sulle sue ginocchia prima che potesse crollare a terra. Brijit, accoccolata al suo petto, aveva sollevato il capo ed era scoppiata a ridere.

    Questa giumenta è bella sfacciata!

    Mi piacciono, sfacciate...


    Le aveva sorriso di rimando e l’aveva baciata con passione. Il dottore decisamente non sembrava a proprio agio. Aveva capito che non era più Simone, quella seduta in maniera così poco composta sulle sue ginocchia e che si lasciava andare ad effusioni esplicite con un altro uomo, ma quello era pur sempre il corpo della sua consorte.

    Hai chiamato, François?

    Il dottore non aveva risposto, inebetito.

    La lingua ce l’hai solo per leccarle la fica o ci parli anche?

    Lo aveva schernito Brijit, sollevando la gonna e aprendo le gambe per rafforzare il concetto. Entrambi avevano riso. Il dottore era visibilmente piccato, tuttavia non si era azzardato a protestare. Aveva ingoiato il rospo e si era schiarito la voce, serio in volto.

    Bawon Sanmdi... Io sono un medico...

    Usa quella lingua per dirmi qualcosa che non so.


    Quello non era stato il loro primo incontro, ma lo conosceva più di fama che per altro. Il dottorino si era fatto ben volere nelle comunità rurali di Haiti mettendo le sue abilità e le sue conoscenze al servizio dei più poveri e bisognosi, tanto da guadagnarsi l’affettuoso nomignolo di papà. Proveniva da una famiglia benestante, eppure non si era mai atteggiato con superiorità rispetto alle persone più umili e aveva sempre onorato le loro usanze, al contrario di certa gente con la puzza sotto al naso che aveva smesso di parlare creolo solo perché aveva avuto il lusso di studiare.

    L'epidemia di framboesia. Ho tentato di tutto. Penicillina, medicine, non conta niente. I pazienti continuano a peggiorare e si diffonde a macchia d’olio. Qui in Léogâne è un disastro.

    Framboesia questo grandissimo cazzo.


    Aveva replicato, lapidario, sottolineando le proprie parole con un gesto eloquente. Si era acceso il mezzo sigaro che Nizaire aveva avuto la gentilezza di lasciargli nella stessa tasca degli occhiali e, dopo una lunga boccata e un altrettanto lungo sbuffo, aveva continuato.

    Te la sento addosso, quella puzza. Puoi giocartici le palle, che questa non è una malattia come le altre.

    Attento, ti doc, non si scherza con quella merda lì. Ti ha detto culo che non ha preso anche te. Per ora.


    Un’aura rosata aveva avvolto il dottore mentre Brijit lo ammoniva, cosmo guaritore contro le esalazioni malsane che gli aleggiavano attorno. Non aveva ancora segni evidenti, ma stando in mezzo ai malati avrebbe finito per diventare uno di loro, se non avesse preso precauzioni, nonché un veicolo di contagio ambulante, considerati i suoi spostamenti tra un villaggio e l’altro.

    Potete fare qualcosa?

    Forse...

    Forse?


    Il tono del dottore si era fatto più pressante, ai limiti dell’insolenza. L’aria sottomessa con cui si era presentato si stava mostrando per la menzogna che era. Bene. Ma non era sufficiente.

    Sei un medico, François. La superstizione non si addice agli uomini di cultura.

    Lo stava provocando e lui stava facendo il suo gioco. Conosceva il modo giusto di pungolarlo.

    Il nostro potere su quest’isola non è più quello di un tempo. Magari i tuoi amici del continente possono fare di meglio.

    Non avrebbe potuto giurarci, ma gli era sembrato di intravedere una vena pulsare sul collo del dottore.

    Vai a dirlo ai grand’uomini che hanno fatto legna con gli alberi sacri. Dillo a quelli che hanno dato fuoco ai nostri hounfort e hanno spaccato i govi dei vostri avi per estirpare le vostre radici. Dillo al tuo prete che si sgola dal suo pulpito per aizzarci contro la folla.

    Si era alzato con misurata lentezza e si era avvicinato al dottore, calcando ogni frase con passi che trasudavano minaccia. Il suo cosmo ardeva attorno a lui, facendo brillare di un viola freddo gli occhi del suo chwal.

    Dillo a loro, perché non puoi fare niente.

    Quei luridi porci mulatti non sanno nulla!


    Era esploso, alla fine. Con una singola frase aveva vomitato tutto il rancore che si sforzava di tenere dentro. Gede non aspettava altro. Finalmente era sincero. Finalmente si stava mostrando per quello che era.

    Sono una manica di ipocriti ignoranti, stanno lì a ingrassare sulle spalle del popolo! Se ne fregano della gente che soffre. Loro non sanno cos’è meglio per questo Paese!

    E tu lo sai, François?


    Gli aveva sorriso. Lui non aveva risposto, ma non ce n’era alcun bisogno. Glielo si leggeva in faccia, quello che pensava.

    Se mi aiuti, possiamo dare a ognuno quello che si merita. Un dottore alla tua gente...

    E ai porci grassi una lama in gola.




    h8aMTzT
    narrato parlato pensato Brijit

    U4wVnsq
    nome Sanmdi
    energia Verde
    surplice Non pervenuta
    casta Spectre
    fisicamente 'Na chiavica, ma peggio :zizi: Malattia del caos bloccata ma più diffusa, contusioni, lividi e graffi infetti da corrotti, stanchezza
    mentalmente Sentiti ringraziamenti ai due bastardelli :zizi:
    riassunto azioni Presente: mieto Josephine. Passato: Serrez la main d’un pauvre pêcheur :kuku:

    Ou se pousyè, e w ap retounen nan pousyè
    [Cosmo poderoso: aura necrotica]
    Venerato dai vodouisant come divinità della morte e custode delle sepolture, non si limita ad accompagnare i mortali verso il destino che, salvo imprevisti, attende tutti loro, ma si assicura anche che i suoi fedeli defunti restino tali e che a nessuno venga in mente di farli saltar fuori dai sepolcri sulle loro gambe, vivi o quasi. A questo scopo tornano utili le capacità distruttive del suo cosmo, di aspetto e consistenza simile a quella del fumo di tabacco, in grado di decomporre tutto ciò che tocca, mutando la materia in fluidi putrescenti o disgregandola in cumuli di polvere o cenere: efficace per far sparire in fretta il contenuto di una tomba o, meglio ancora, un incauto profanatore. L’improvvido furfante in questione non si ritroverebbe semplicemente a decomporsi tra atroci sofferenze mentre ancora respira, ma avrebbe seri problemi a tentare la fuga, logorato dalla stanchezza oltre che dalla perdita degli arti. Per Gedé è, inoltre, possibile prendere il controllo della massa in putrefazione, manipolandola secondo la propria volontà.


    Men anpil, chay pa lou
    [Trasformazione]
    Per chi serve i Lwa la morte ha centinaia di volti, alcuni benevoli e misericordiosi, altri severi e vendicativi, riflesso di paure ataviche e desideri viscerali. Ognuno dei figli di Gedé e della sua sposa è la manifestazione di una diversa sfaccettatura, plasmata dalle loro esperienze di vita e, soprattutto, di morte. All'occorrenza il Barone può scegliere di sopire la propria coscienza e di cedere il controllo a uno di loro, permettendogli di modificare a piacimento la sua forma fisica e di esercitare i suoi poteri caratteristici. Il cambio di cavaliere può essere repentino, ma non è così semplice da percepire come si potrebbe immaginare poiché il corpo e il volto dei Lwa sfumano l’uno nell’altro come in un sogno nel momento della trasformazione.



     
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    Sì.


    Oh, com'è dolce il suono di questa singola parola quando quel fervore nel suo cuore diventa il tamburo su cui batti il ritmo della storia di Haiti da quel momento in avanti. Com'è facile prendere i sogni degli umani e mandarli avanti, avanti, avanti, sempre più in alto e contemporaneamente sempre più in basso.

    François Duvalier diventa Ministro della salute nel 1946. Lo fa portando il tuo culto in ogni centimetro del'isola, dando la forza di manifestare sempre più spesso e sempre facilmente il potere della Stella del Cielo Guardiano su questa terra.

    Quella piccola manifestazione del Caos, sotto forma di qualcosa di fastidiosamente simile alla framboesia, diventa gestibile con i giusti mezzi e i giusti aiuti, e poi sembra ritirarsi.

    Da Ministro a Presidente, nel 1957. Nessuno oserebbe mettersi contro qualcuno con tanta popolarità...e così tante risorse. Sorridi attraverso le centinaia di persone pronte a impedire che Duvalier diventi il 24esimo capo di stato mancato. Tonton Macoute li chiamano, e i dissidenti spariscono nella notte come inghiottiti dal buio.
    Hai piani migliori.

    Rispondi alle preghiere, realizzi sogni, diventi incubi.


    Ray Charles - What'd I Say


    Ed è il 24 maggio del 1959 quando riapri gli occhi e respiri dal tuo nuovo chwal. Senti la sua anima recalcitrare, urlare terrorizzata e poi estatica quando realizza che il momento è giunto.
    Che il prezzo ora va pagato. Lo lasci guardare, ora.

    Giusto il tempo di rialzarti, inforcare gli occhiali da sole e sorridere. Brijt, dal corpo di Simone, si lascia andare in una grassa risata e ti bacia, la stanza esulta e il popolo fa altrettanto.

    Ma tu hai molto, molto da fare. Per fortuna non sei da solo!

    Su4sahH

    Facciamo una cosa divertente. Non sei in una bella posizione felice ora, quindi ho deciso che ti meriti di vivere un po' di gloria.

    Vorrei che, in brevi episodi e uno attraverso i figliolini a tua scelta o te o Brijit compresi, mi facessi vedere un po' come ti sei divertito. La dittatura di Duvalier ha portato alla tomba qualcosa come trentamila persone.

    Suonami della dolce, dolce musica ebil.
    ▼ DM's Corner
     
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