Shepard

1° Add. °Aria° per Silver Cloth della Balena

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    Minuti
    che si tramutano in ore
    che divengono giorni
    che si susseguono in settimane
    che alternandosi diventano mesi

    un passo, dopo l'altro.

    Ti sei lasciato alle spalle la devastazione del tuo piccolo angolo di mondo conosciuto.
    Ti sei lasciato alle spalle la piccola prigione grigia che intrappolava il tuo corpo e la mente di tua madre.
    Ti sei lasciato alle spalle i resti fumanti del paesino, le fosse comuni ove sono state scaricati i corpi di coloro che furono, lasciando coloro che sono.

    Hai lasciato i pochi altri sopravvissuti e ti sei incamminato diretto verso un sogno.
    I piedi verso una nuova terra.
    La mente verso una leggenda.

    Ma Irwin, verso dove andrai?

    CITAZIONE
    Master Corner:

    Benvenuto nel tuo addestramento.
    Premetto che sarà tutto un divenire in base al tuo raccontare, il protagonista è il tuo personaggio e, a seconda delle scelte che lo porterai a compiere, il percorso dell'addestramento potrebbe subire diverse variazioni.

    Ora.
    IN questo tuo primo post, sii Irwin, narraci di lui e della sua piccola (grande) Odissea. In viaggio verso Atene, perché Atene?
    Ha forse sentito racconti dal "Vecchio pazzo" che tanto pazzo poi magari non era?

    Da un paesino a Nord dell'Irlanda alla Grecia, hai due tratti di mare da attraversare.
    E tutta la terra sembra essere nemica della vita come l'hai sempre conosciuta.

    narra l'inizio della tua epopea fino alle costa che sceglierai come punto di partenza per quello che sarà il tuo punto di partenza via mare (specifica se vuoi tentare di arrivare in regno Unito oppure tentare direttamente una traversata più lunga fino ad una costa fissa).

    E' appena dopo l'Armageddon, in piena modalità di sopravvivenza.

    a te.
     
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    Shepard - Whalefall

    narrato | <pensato> | "parlato"

    L’odore.

    È l’odore ciò che più attanaglia la mente del ragazzino; il fetore che aleggia sulla terra insanguinata, che si abbarbica con artigli velenosi e appiccicosi all’interno del suo naso, si arrampica lungo le fibre dei suoi nervi, andando su, sempre più su, fino a che non si scava un cunicolo all’interno della sua testa, una tana all’interno del suo cervello. Un tarlo appestato, un malanno insanabile.

    E, una volta giunto lì, intoccabile mentre giace accolto in quel santuario di materia grigia, il tanfo di morte dipana ricordi, tesse incubi. Con tocco delicato, quasi amorevole nella sua crudeltà, l’orrore così risvegliato si espande, gocciola all’interno dei meandri più intimi di una mente dormiente, soffoca ogni cosa che incontra, una macchia di petrolio che si spande attraverso il mare, lasciando solo una nera moria dietro di sé.

    E ci sono fiamme, ora, davanti ai suoi occhi. Fiamme che avvolgono case che Irwyn conosceva fin troppo bene e che aveva odiato, o che aveva creduto di odiare, fino al momento in cui erano andate perse, tutto era andato perso, e l’odio apparente aveva perduto i suoi veli cremisi per rivelare la delicata figura di un amore ferito, che ora giace agonizzante nei fetidi fumi della distruzione.

    Fiamme, rosse e blu e nere e verdi, di ogni colore possibile e immaginabile. Sono quasi belle, a vedersi, un arcobaleno di luce guizzante. Irwyn non può fare a meno di pensare ai fuochi d’artificio, quelli di fine anno, quelli che aveva sempre amato guardare da casa, insieme alla mamma, e che mamma non aveva mai davvero visto.

    E in mezzo alle fiamme, loro. Creature strane, bizzarre, orripilanti. Alcune dall’aspetto vagamente umanoide, altre dall’apparenza così distorta e inverosimile che risulta quasi impossibile da ascrivere a forme di vita conosciute, con la loro pelle spessa e densa e lucida come cera sciolta, con occhi vitrei e iniettati di sangue nero che scattano di qua e di la, incredibilmente efficaci nel rilevare movimenti bruschi, l’arma perfetta per chi deve sterminare chi osa fuggire.

    Con le loro mascelle e mandibole, forti e potenti, che troppo facilmente si chiudono intorno alla testa di una donna che nemmeno ci ha provato a combattere; o forse sarebbe meglio dire il fantasma di una donna, un'ombra che ora semplicemente giace lì, i capelli un tempo biondi, poi bianchi e ora violentemente rossi sciolti in onde scarmigliate a formare un'aureola distorta intorno al suo capo, una corona di sangue tempestata di coaguli neri a incorniciare occhi vitrei che guardano oltre il mostro che incombe sopra di lei, oltre il soffitto, oltre il cielo stesso.

    Si chiudono, lentamente, dolcemente, come a dare un bacio, un tocco dimenticato da tanto, troppo tempo.

    E poi, poi l'inconfondibile sapore metallico di sangue.

    Sangue, che inonda la lingua di caldi fiotti di rame e ferro e carne tranciata, un sapore sempre più comune e familiare con ogni giorno che passa, perché non è la prima volta che Irwyn sogna, che ricorda, e non è certo la prima volta che deve mordersi la lingua fino quasi a tagliarsela per soffocare l'urlo di terrore che inesorabilmente sgorga dal suo petto ogni volta che il sonno prevale sulla mente affaticata.

    Il ragazzo - ragazzino, a stento più di un bambino - sbatte gli occhi, il petto si alza e si abbassa come una marea fuori controllo, il cuore galoppa, scalcia contro la propria prigione di ossa e carne. L’urlo muore all’interno della sua gola, e lì rimane, fermamente incastonato nelle sue fauci spalancate, dove si mummifica in un piccolissimo gemito.

    È notte, le stelle brillano arroganti contro il cielo di seta nera sopra la sua testa, assolutamente incuranti della tragedia immane che si sta svolgendo chilometri e chilometri sotto di loro. E perché dovrebbero interessarsene, dopo tutto. Qualunque cosa stia accadendo sulla terra, per loro, corpi celesti lontani anni luce e grandi centinaia di volte il sole, è a dir poco ininfluente. È come aveva detto il Vecchio, che a sua volta l’aveva sentito dire da chissà chi altro; la Terra, con tutte le persone e i loro problemi così apparentemente grandi, alla fine altro non è che un granello di polvere sospesa in una lama di luce solare.

    È notte, ed è freddo, così come è fredda contro la sua schiena la corteccia ruvida dell’albero contro cui è seduto. Piccole scaglie di legno passano indisturbate tra le fibre dei suoi vestiti, irritano la pelle sottostante. Avrebbe dovuto prendere una giacca più pesante, ma non c’era stato tempo. Rametti e foglie si impigliano nei suoi capelli al più piccolo movimento, capelli un tempo turchini e lisci, e adesso ridotti a un ammasso informe color topo.

    È notte, e Irwyn non può stare lì. Dovevano essere solo quindici minuti di riposo, giusto per chiudere gli occhi un attimo, e invece sono diventate tre ore. Le cose, come le chiama lui per mancanza di un termine più appropriato, si muovono di più durante la notte, vanno a caccia. Il più delle volte sono poco più di bestie, a stento capaci di compiere un pensiero che vada oltre il semplice istinto di uccidere e distruggere, ma a volte ci sono degli esseri senzienti tra le creature, dotati di spiccato intelletto e una tendenza alla crudeltà gratuita. Quelli sono i capi delle battute di caccia, quelli che si divertono a giocare con il proprio cibo prima di mangiarselo, quelli da evitare assolutamente.

    Irwyn si alza lentamente, appoggiandosi all’albero per mantenere l’equilibrio. Le gambe sono pesanti, tremano; ha fame, dopo giorni e giorni passati a raccattare quelle poche bacche che a occhio e croce potevano sembrare edibili. Dovrebbe imparare a cacciare, o almeno pescare. Il Vecchio lo diceva sempre, e Irwyn puntualmente storceva il naso. Non oggi, forse domani, c’è tempo.

    Ma non c’è tempo, non c’è tempo per niente, men che meno per mangiare e dormire. Cosí Irwyn, all’apice dei suoi dodici anni, si alza in piedi, riassesta il coltellaccio da cucina sporco e arrugginito che ha trovato per terra in una casa abbandonata e già saccheggiata da tempo, e si rimette in cammino.

    Non va molto lontano.

    All’improvviso, nella notte che avanza con passi lunghi e strascicati, un urlo straziante ne squarcia le pesanti vesti, lasciando infine intravedere un barlume della tragedia che nasconde in grembo.

    ”AAAAAAHHHH!!”

    Una voce maschile, giovane. Un ragazzo, probabilmente poco più grande di Irwyn stesso. Viene da non molto lontano, più in profondità del piccolo querceto in che Irwyn sta accuratamente costeggiando, sempre attento a non addentrarsi mai troppo.

    ”AIUTOOO!! QUALCUNO MI AIUTI!!!”

    Gli inconfondibili stridori di artigli contro rocce e terra e legno seguono le urla, un macabro coro a quello sfortunato solista che così forzatamente ha dovuto accettare quella parte tanto grama. Le potenti mascelle schioccano, ghignano, ridono.

    <Sciocco.> Irwyn scuote la testa tra sé e sé. <Così è solo peggio.>

    Ma le urla continuano, il folle inseguimento procede a rotta di collo, ed è chiaro che le bestie avranno presto la meglio, forti della loro potenza, della loro superiore anatomia. Sono a pochi metri di distanza da lui, separati solo da un lieve strato di boscaglia sparsa.

    Deve allontanarsi, approfittare del fatto che il ragazzo sta facendo da perfetta esca, un diversivo perfetto per consentire a Irwyn di sgusciare via non visto.

    Deve assolutamente andare via, ora, adesso, se non vuole diventare anche lui la prossima preda, il prossimo giochino con cui quelle orribili cose si possano dilettare per qualche fugace minuto prima che si stanchino e trancino la sua gola, solo per andare a cacciare un altro passatempo.

    Deve sopravvivere. Costi quel che costi.

    Deve… Deve

    Eppure, i suoi piedi sono fermamente ancorati a terra, radicati saldamente al suolo. Il terrore fiorisce infine dentro al suo petto, avviluppa i suoi lunghi tralci freddi intorno al suo corpo, lo incatena al posto, impossibilitato a fare anche solo mezzo passo verso la sicura salvezza che giace lontana in direzione opposta. Si rannicchia dietro una quercia particolarmente grossa, attento a rientrare perfettamente nell’ombra gettata da questa sul terreno. Con cautela, sfodera il coltello dalla tasca. La sua mano trema.

    Passi, sempre più veloci, nella sua direzione. Il rumore di arbusti smossi dal rapido passaggio di qualcosa di grande, di due, tre, quattro cose grandi. Uno-due-uno-due, ba-thump-ba-thump.

    Cosa pensa di fare, lì dietro come un fesso, ad aspettare la morte con in mano un coltello che nemmeno taglia.

    Urla, gemiti, stridori, sempre più forti, sempre più concitati. Oramai ci sono quasi. Pochi passi e-

    Un tonfo sordo, un improvviso silenzio. Qualcosa rotola in avanti, sfruttando il momentum, vicino abbastanza per Irwyn da riuscire a vedere di cosa si tratta, nel momento stesso in cui lentamente, quasi oziosamente, l’oggetto misterioso si immerge in una pozza di luce lunare che filtra tra gli alberi, beandosi di se stesso.

    Una testa. Una testa dagli occhi sbarrati e vacui, la bocca spalancata in un ultimo urlo di terrore che non è riuscito a spiegare le proprie ali in tempo prima che si schiantasse al suolo.

    Lo stomaco di Irwyn si ribalta su se stesso, una, due, tre volte. Si deve conficcare un pugno in bocca per non gridare o vomitare, e, mentre il suo corpo freme di terrore, per la seconda volta quella notte la sua lingua assapora il familiare gusto del suo stesso sangue.

    Non ci sono più urla. Solo il rumore di carne lacerata, martoriata, ogni colpo enfatizzato dai confusi schiamazzi delle cose, disposte a cerchio intorno alla preda conquistata. Uccisa solo per gioco, per una forma malata di sport, per il semplice gusto di farlo; perchè possono farlo, per il semplice fatto che non c’è niente e nessuno in grado di impedirgli di farlo.

    <non è giusto.>

    Dalle profondità opache e incrostate del coltello, stretto nel suo pugno con tanta foga che le sue nocche sono ormai bianche quanto le misere ossa sottostanti, il suo stesso occhio turchino riflesso lo fissa di rimando, quasi in forma di silente, strafottente sfida.

    <oserai?>

    Un ragazzino di dodici anni a stento compiuti, contro tre di quelle bestiacce schifose, che hanno appena fatto fuori un ragazzo diversi anni più grande di lui. Le prospettive non sono esattamente delle migliori. Nemmeno il Vecchio Pazzo sarebbe pazzo abbastanza da scommettere su odds del genere.

    Eh, il Vecchio… il Vecchio è stato uno dei primi a cadere, a farsi fare a pezzi senza fiatare. Sempre con quel sorriso sulle labbra bruciate dal sole e dalla salsedine, con quella irritazione agli angoli della bocca che gli dava così tanto fastidio ma che rifiutava categoricamente di curarsi. Anche lui non ci ha minimamente provato, né a scappare né a difendersi.

    Irwyn ha l’impressione che avrebbe potuto, se solo l’avesse voluto.

    E intanto il ragazzino sta li, solo e zitto nascosto dietro un albero, mortalmente zitto e fermo, non un muscolo, non un fiato. Le creature dietro di lui si agitano, festeggiano la vittoria con i loro versi gutturali, tutto fuorché umani. Sono vicini; un solo suono e non ci sarà alcuno scampo per lui. Nella sua mente, già vede la propria testa rotolare vicino a quella del ragazzo, il sangue spargersi lentamente in una inquietante, vischiosa marea rossa sulla terra brulla, denso e caldo.

    Le cose si avvicinano. Il cuore di Irwyn tuona, il suo sangue rimbomba, strilla nelle sue orecchie, martella violentemente contro l’interno delle sue tempie. È un miracolo che non siano in grado di sentirlo, palpitante quanto il frullare delle ali di un passero, e altrettanto fragile.

    Cinque metri, tre, uno. È troppo tardi anche solo per pensare di scappare, men che meno riuscirci. Irwyn stringe il coltello tra entrambe le mani, la lama smussa freme in anticipazione. Per cosa, nemmeno lui lo sa con esattezza.

    Mezzo metro, un solo balzo. Sente quasi l’alito fetido, marcio di morte, fiatargli sul collo, la proverbiale falce accarezzargli la pelle.

    Tre.

    Perchè non era scappato?

    Due.

    Avrebbe dovuto cogliere la palla al balzo, sfruttare l’occasione. Perchè non l’aveva fatto?

    Uno.

    Non è giusto.

    Un momento che si estende per eoni interi, ere spazzate via in un singolo battito di ciglia.

    Poi uno stridio, lungo e insopportabile, di quelli che perforano i timpani e si spaccano la strada nel cervello a colpi di martellate, rendendo impossibile sentire anche i propri pensieri. Uno stridio a cui sopraggiungono altri due, identici al primo, seguiti da uno scalpiccio di lunghi, spessi artigli insanguinati contro l’erba bagnata di brina, un rumore che si affievolisce, sempre di più, fino a che non viene inghiottito dal silenzio senza fondo. Se ne sono andati.

    Per un minuto, cinque, o forse una vita intera, Irwyn rimane lì, tremando come una foglia presa d’assalto dal vento crudele d’autunno da tutti i lati, ma che ancora non osa buttarsi.

    Guardare, o non guardare? Sarebbe molto, molto più semplice tirare dritto per la propria strada, dimenticarsi di quello a cui ha appena assistito, relegarlo nelle profondità più recondite della propria mente.

    Irwyn sbatte gli occhi, una, due, tre volte, ma non importa, perchè quella testa insanguinata è sempre lì a pochi metri da lui, a fissarlo con occhi vitrei e opachi, quell’urlo silenzioso immortalato per sempre nel ritratto della morte incombente.

    E, alla fine, cede.

    Il suo corpo, finora tenuto insieme a stento dall’adrenalina pompata a mille in circolo, finalmente crolla, si piega su se stesso come un castello di carte dopo che l’incauta e ambiziosa mano ha aggiunto una carta di troppo. Le sue ginocchia urtano violentemente la terra dura mentre il ragazzino cade a carponi; non che gli importi molto, impegnato com’è a vomitare tutto quel poco che era riuscito a mangiare durante la giornata, scosso com’è da conati tanto potenti da fare un male terribile, da far venire le lacrime agli occhi.

    Uno, due, tre, esce tutto senza pietà, senza bisogno di chiedere il permesso. La gola si stringe, l’aria viene a mancare, pure l’anima sembra dover venire fuori, e solo a stento si abbarbica alla mucosa irritata e tumefatta, a stento si tiene li.

    Ci vogliono parecchi minuti prima che l’attacco smetta. Tutto tremante, si asciuga la bocca sulla manica lurida e lacera e si rialza a fatica, con passo esitante si avvia verso l’interno del bosco. Fa molta attenzione a passare ben lontano dalla testa mozza; gli sembra di sentire quello sguardo vacuo accoltellarlo alla schiena il momento in cui le volta le spalle.

    Si avvicina, piano, con tutta la calma che non prova davvero; l’odore di sangue ancora troppo fresco è intollerabile alle sue narici già irritate, ma tant’è lui prosegue, traballando ad ogni passo, verso il corpo steso bocconi sulla terra e ormai esangue, maciullato, pallido in quei rari punti laddove il sudario cremisi e nero del sangue non arriva a lambire, blu alle estremità dove la carne ora comincia a soffrire la mancanza di ossigeno.

    <perchè? Qual’è il senso?!>

    Questo pensa mentre il ragazzo manda giù i conati a forza e con il dorso del piede ribalta il corpo, e sangue e interiora schizzano sulle sue scarpe da ginnastica, sporcano il già lurido e lacero orlo dei suoi vecchi jeans. Si inginocchia vicino al corpo, prende un lungo respiro, un altro, come se dovesse immergersi in acqua gelida; e forse (sicuramente) sarebbe meglio, ogni cosa sarebbe meglio che dover mettere le mani in questo macello - nel senso più letterale del termine - e razziare le tasche di un corpo ancora caldo per vedere se c’è qualcosa di utile, qualcosa che potrebbe forse barattare per qualcos’altro, nel caso dovesse imbattersi in altri superstiti.

    Ironico. Lo chiamavano bastardo, un tempo, per il solo fatto di essere nato. Ora è pure sciacallo, per il solo fatto di essere vivo.

    Un altro conato, ma stavolta è diverso. Per qualche strano motivo, è anche peggio.


    (“La stai prendendo troppo sul serio.” Aveva detto una volta il Vecchio tra un tiro della sua pipa di altri tempi - tempi migliori, indubbiamente - e l’altro, mentre guardava Irwyn tirare piccole pietre nel mare, e fallire miseramente nel tentativo di farle rimbalzare sulle onde. “Ti ci farai venire il sangue marcio.

    “Secondo loro lo sono già.” Un altro lancio, un altro buco nell’acqua. Letteralmente. “Bello schifo. Che ho fatto io di male? E’ così sbagliato che io esista?

    “No che non è sbagliato. Si ricrederanno. Dà loro tempo.

    Si, certo, e Irwyn domani imparerà a volare.

    “E quanto ci vorrà ancora?”

    Il Vecchio rise, quella sua risata resa sibilante dalla bronchite cronica e troppe cose da dire.

    “Porta pazienza, giovincello, questo lo sa solo la Dea. Solo Lei sa quando e come Giustizia verrà fatta.” Un altro tiro dalla pipa, che lo fa tossire, ma anche sorridere. ”Giovani di poca fede, oggigiorno, eh già…"
    )


    Ora, con le mani sporche di sangue, sangue di un'altra persona, di un altro uomo bambino, Irwyn non vorrebbe altro che prendere il Vecchio per la collottola e scuoterlo, scuoterlo fino a che quelle vecchie ossa non scricchiolano e schioccano, perchè è questa forse Giustizia?! Il sopravvivere sulla morte altrui?!

    E’ forse questo che la Dea vuole? Quello che intende per essere giusti?

    La Dea ha un bel dire allora. Perchè questa, per Irwyn, decisamente non è giustizia.

    Dopo quelle che sembrano ore, finalmente si rialza, si pulisce alla bell’e meglio le mani sporche contro la corteccia di una giovane quercia vicina. Tutta questa fatica, questo penare immenso, per un bottino misero; qualche moneta e banconota, un singolo orecchino d’argento, un vecchio pacchetto di sigarette umide e appiccicaticce che chissà da quanto tempo erano li. Le uniche cose buone sono l’accendino e il coltellino svizzero. Quelli possono sempre tornare utili. Peccato che quelle belve orrende abbiano martoriato il corpo così; non sarebbe stato male arraffare quella giacca a vento, se solo non fosse stata ridotta a brandelli dalla violenza inaudita delle cose.

    Che schifo. Solo l’idea di essere arrivato a pensare in quel modo lo schifa più di qualunque belva, più dei litri e litri di sangue e budella che ha dovuto vedere nel corso di questi ultimi due mesi passati alla macchia, disposto a fare qualunque cosa pur di sopravvivere.

    Ma l’istinto è più forte, la necessità si trucca da virtù e il desiderio di stare a galla è inarrestabile. Non importa quante volte prova a pensare di mollare, di lasciarsi abbandonare nell’abbraccio del mare quando è furioso e imperversa, alla fine c’è sempre quella fune che lo àncora alla vita, che lo tiene fermo mentre la tempesta irrompe intorno.

    E quindi anche stavolta si intasca il raccolto e cammina avanti, senza guardare in basso, senza osare guardare indietro.



    Rosslare Harbour è sempre stata una cittadina piccola, un villaggio di poche anime, ma mai come adesso.

    Edifici un tempo belli, pittoreschi - forse a volte un filo troppo, laddove il notevole sviluppo vissuto dalla cittadina nel corso degli ultimi anni ha imposto un’ottica più orientata al commercio e al turismo - ora cadono diroccati, bruciati, consumati dagli attacchi ultraterreni di quelle orribili creature senza nome. I monconi delle villette familiari e degli edifici pubblici non sono in grado di offrire molto di più che una basilare protezione da freddo e intemperie, e tuttavia pullulano lo stesso di gente, di sfollati, di persone che hanno perso tutto e tutti e forse anche se stessi.

    Irwyn avanza in quella realtà polverosa, scura e umida, dall’aria densa e pesante di polvere e cenere. Cammina attraverso quelle forche caudine fatte di decine di sguardi di brace morente, e vede i suoi stessi occhi negli occhi degli altri, gli occhi di chi ha dovuto sopravvivere in qualche maniera, gli occhi di qualcuno che prega di non essere giudicato, perchè cos’altro avrebbe mai potuto fare?!

    Lui non giudica. Non vuole nemmeno sapere. Certe cose è meglio che vengano opportunamente inabissate, senza che mai mano umana sia in grado di smuoverle più dalle profondità insondabili in cui giacciono pacificamente.

    Ma c’è vita, qui, ed è già qualcosa. Un porto. L’ha sentito dire da una coppia che ha incrociato un mese fa, quando ancora vagava per scogliere e brughiere senza una rotta ben precisa. Gli avevano dato la loro mappa, barattandola - dopo una lunga ed estenuante trattativa - per una lunga fune robusta che aveva trovato poche settimane prima in un casolare pieno di cadaveri e qualche altra bestia vagante. Non il migliore affare della sua vita, forse, ma non avevano accettato altro.

    Un porto, dove chi ha una barca la fa da padrone incontrastato, facendo richieste assurde a chi giungeva in paese implorando per qualcuno che sia disposto a portarli per mare, oltre queste coste abbandonate a se stesse, nella speranza - vana, ma ci sperano tutti nonostante tutto - che le cose oltre il mare vadano meglio.

    Il familiare canto delle onde contro il molo è una benedizione, un balsamo per i nervi stanchi, per il cervello sovraccarico. Irwyn si attarda un attimo ad ascoltare il fruscio della schiuma sugli scogli, il sibillino scoppiettio della spuma sulla roccia. La salsedine pungola le sue labbra screpolate, pizzica le guance emaciate con tocco provocatorio, quasi giocoso, come una vecchia zia farebbe per forzare un sorriso sul volto del nipotino adorato.

    Ha mai avuto una zia? Parenti di sorta? Irwyn non ricorda; la mamma era sempre sola, sempre abbacchiata, sempre impegnata a guardare oltre l’orizzonte.

    Ma non importa adesso. Quello che importa è che c’è un crocchio di uomini seduti vicino a un peschereccio li vicino, intenti a fumare e bere e giocare a carte. Pescatori, probabilmente, in attesa del prossimo carico di persone da ripulire ben bene.

    Irwyn si sfila il fagotto dalla spalla-

    -e lo lancia direttamente nel bel mezzo del cerchio., rovesciando carte e birra.

    ”Devo andare in Francia.”






    - Energia: Bianca
    - Status Fisico: Stanco, provato, emaciato dal lungo camminare e il poco sostentamento.
    - Status Mentale: Stravolto, abbastanza scazzato verso la fine del post. Il ragazzo ne ha viste di cotte e di crude.
    - Cloth: //
    - Abilità: //
    - Tecniche: //
    - Riassunto Azioni: //







    troppo fuori tema?


    Edited by ~S i x ter - 3/2/2024, 17:41
     
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    Le voci stentoree ed alterate da fumi di alcol e tabacco si chetano all'istante mentre diverse paia di occhi fissano prima il fagotto, con aria famelica per poi appuntarsi sulla figura smunta, sporca, lacera di un ragazzino. E quegli occhi da famelici diventano predatori.

    Stanno per alzarsi dal barile usato come tavolo quand'ecco che, al rumore acuto di uno scricchiolio di cardini, si bloccano, come statue di ghiaccio.

    Da una porta sbilenca vedi uscire un uomo, sulla cinquantina brizzolato e con diverse ferite fresche sul viso che ne deturpano quella che era una presenza vissuta, ma sicuramente di notevole aspetto.
    L'uomo appare ben piazzato ma non grasso, di sicuro robusto.

    E' seguito da un paio di donne e l'aspetto, le espressioni e le movenze poco lasciano all'immaginazione di quanto poc'anzi accaduto in quel locale chiuso.

    Le donne ti guardano con curiosità, un si avvicina per bisbigliare qualcosa a quell'uomo ma quest'ultimo, la zittisce, mettendole la mano aperta su bocca e viso e lasciandola sedere su uno sgabello.

    Scende lentamente la terna di gradini che separano il piano di calpestio della stanza del piacere rispetto al piano strada.

    Ogni singolo passo risuona nell'aria prima che il successivo rincorra il suono.

    Giunge sulla strada e si avvicina al rozzo tavolo, afferra il tuo fagotto e lo apre con non curanza, guardandoci dentro per un istante prima di richiuderlo e rigettartelo contro, senza forza, un tiro parabolico semplice, proprio per fatelo afferrare.

    Il suo odore è pungente, misto a quello del sudore e del piacere.

    Ti si avvicina fermandosi a tre passi dalla tua emaciata figura.

    Perchè?

    Una singola parola e la sua voce è qualcosa di pesante, come un drappo millenario che si stende su di te.

    I suoi occhi marroni sono fissati sulla tua figura. Duri come diamanti, arcigni come quelli di un satanasso.

    Le labbra, anch'esse percorse da una ferita costituita da due linee parallele che deturpano il viso dell'uomo dalla mandibola inferiore sinistra alla tempia destra, si arricciano dopo qualche secondo in una specie di sorriso.

    La Francia è lontana, rimane poco da vivere ed il viaggio verso Cherbourg o Roscoff non vale assolutamente l'impresa.

    Allunga un braccio e si prende una sedia, la tira a se girandola con lo schienale verso la tua direzione, allarga le gambe e si siede sgraziatamente, posando gli avambracci muscolosi sullo schienale ed iniziando a dondolarsi.

    Per quale motivo Amhalgaidh Ó Bradáin e la sua barca dovrebbero correre un rischio così grande, per un bambino.

    CITAZIONE
    MASTER CORNER:

    Ottimo post, sappi che ho urlato (in senso positivo) appena letto - anche se in colpevole ritardo da parte mia causa lavoro.


    Hai trovato una persona con la quale interagire, anche se abbastanza fuori dagli schemi. Se vuoi puoi anche descrivere quel che vi è nel fagotto lanciato^^
     
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    Shepard - II - Apex Predator

    narrato | <pensato> | "parlato"

    Un branco di squali.

    È ciò che Irwyn pensa mentre il gruppetto di marinai per un momento fissa il fagotto sporco in mezzo a loro, il misero quadrato di tela ritagliato rozzamente da un vecchio sacco che ha interrotto il loro gozzovigliare con il fare arrogante di una manna dal cielo. Un branco di squali che ha fiutato il sangue, la carne calda lanciata così sfacciatamente tra le acque gelide, e ora vi gira intorno, annusa curiosamente, pregusta il delizioso manicaretto inaspettato.

    Poi gli uomini si girano, guardano il ragazzo che, in piedi, è quasi alto quanto loro seduti, lo scandagliano per bene, dall’alto al basso, da destra a sinistra. Occhi affilati e dalle sclere vagamente ingiallite solcano la sua figura ancora esile, affondano facilmente tra le pieghe dei suoi vestiti che già ricadono un po’ troppo larghi sul suo corpo prepubescente.

    E se il fagotto era un prelibato bocconcino di carne, attraente ma decisamente insufficiente per soddisfare l’appetito di un gruppo di pescecani affamati, Irwyn è invece una preda vera, calda e palpitante sotto i denti, una piccola ma appetitosa foca che ha perso la rotta, e in qualche modo è finita dritto dritto in mezzo a un branco di grandi squali bianchi.

    Quegli sguardi sono pesanti, curiosi, morbosi, quasi indecenti. Gli sembra di venire squartato da quegli occhi di vetro e cupidigia, di essere smembrato e valutato pezzo per pezzo, non in maniera diversa da come farebbe un pescivendolo la mattina di mercato, sempre attento a truccare la bilancia quel tanto che basta per ricavare un goccio di più di quanto effettivamente il pescato non valga.

    Irwyn si deve impegnare a non rifuggire quegli sguardi, a sostenerne il peso e il taglio. Alza il mento, quasi come se ciò bastasse a rendere il fardello meno gravoso. Gli uomini si alzano, e già si vede attorniato, senza via di scampo-

    Poi, un cigolio acuto, stridente, di legno marcio su cardini che non hanno avuto il piacere di incontrare una singola goccia d’olio in diversi decenni. Gli uomini si girano immediatamente verso la fonte di quel suono tanto fastidioso, quasi fosse il richiamo che gli era stato ordinato di attendere, e in un singolo istante il loro atteggiamento cambia radicalmente; da leziosi e languidi che erano, ora si fanno attenti e rigidi, da comandanti a comandati. La ruvida pelle spavalda cade, si accartoccia su se stessa; il predatore si fa preda, lo squalo dalle poderose fauci diventa piccolo cagnolino che fugge con la coda tra le gambe davanti a una creatura ancora più grossa, ancora più pericolosa.

    Irwyn non ha mai visto un’orca assassina a caccia, ma è l’unica cosa che gli viene in mente nel momento in cui i suoi occhi ricadono sul nuovo arrivato.

    L’uomo che ora si staglia sull’uscio della porta è grande e grosso, almeno un metro e novanta di altezza, di spalle larghe che a stento sembrano poter entrare in quella porticina misera. Grandi pettorali fittamente tatuati con simboli intricati spuntano dalla camicia abbottonata solo a metà.

    Ma quello che più colpisce Irwyn dell’aspetto dell’uomo è il volto. È un volto, se non bello nel senso più letterale del termine, sicuramente affascinante: tutto un reticolo di linee dure e affilate che si susseguono l’una nell’altra, andando a modellare con mano grezza ma ferma una mandibola grande e quadrata, delineata da una barba corta e ispida, scura laddove non spruzzata di bianco come i capelli corti color ferro; gli zigomi sono alti e prominenti, e si riversano al centro in un naso dal profilo forte, aquilino, un po’ deviato sulla sinistra, probabilmente il risultato di numerose scazzottate - vinte tutte o quasi, a giudicare dalle braccia lunghe e gonfie di muscoli poderosi, dalle mani grandi e con le nocche spellate e infiammate - a cui è sopravvissuto. Numerose cicatrici sferzano quel volto di pietra dura; le più grandi percorrono in obliquo l’intera estensione del volto, spaccano le labbra carnose e ingiallite dal tabacco in due con la grazia di un colpo di ascia sul ceppo delle esecuzioni.

    Stranamente, invece di andare a detrarre dal fascino di quel volto dai lineamenti duri e solidi, quasi scolpiti nella roccia da uno scalpello abile ma poco raffinato, quelle cicatrici finiscono solo per impreziosirlo ulteriormente. Nel bel mezzo di quella ragnatela bianca, gli occhi scuri risaltano come tizzoni ardenti, brillanti di una luce propria, di un sole nero che si crogiola languido e spavaldo nelle sue stesse profondità.

    L’uomo non è da solo; dietro la sua figura massiccia, le silhouette di due donne, una rossa e una bruna, fanno capolino. Tanto alta e asciutta la rossa quanto morbida e curvilinea la bruna, entrambe appaiono stanche ma soddisfatte mentre si aggiustano i pizzi semi-trasparenti sgualciti, mentre si riallacciano le vestaglie sul davanti con un nodo fin troppo lasco che lascia ben poco all’immaginazione.

    Nonostante la sua giovane età, Irwyn è perfettamente consapevole di quello che deve essere appena successo, di ciò che le due donne devono essere. Dopotutto, la mamma si era beccata lo stesso insulto spesso, troppo spesso, ogni volta che osava mettere il naso fuori casa, ogni volta che - scandalo! - portava il piccolo Irwyn con sé, perché anche lui aveva bisogno di uscire, di stare all’aria aperta, di prendere un po’ di sole di tanto in tanto. Dopo un po’ nemmeno ci provava più a negare, nemmeno aveva più lacrime da piangere.



    (Puttana.”)



    Ma non era, non era mai stata. Aveva solo amato, aveva amato troppo un’ombra che si era estinta troppo presto nelle rosee lenzuola dell’Aurora.

    È così sbagliato amare, in fin dei conti? Tutti predicano amore, sempre amore infinito verso il prossimo, ma quando c’è da amare per davvero sono tutti veloci a tirare pietre.

    Mezzo passo dietro l’uomo, le due donne guardano il ragazzino con aria incuriosita, addirittura un po’ stranita. La rossa inclina leggermente la testa da un lato, un sopracciglio lievemente inarcato verso l’alto, mentre la sua compagna bruna gli strizza l’occhio e sorride, le sue belle labbra carnose sbocciano su denti storti e ingialliti. Nonostante la profonda stanchezza, un lieve calore pizzica l’apice delle guance di Irwyn. Si affretta a distogliere lo sguardo; la donna ridacchia tra sé e sé, i folti ricci danzano, fremono con lei.

    La rossa fa per bisbigliare qualcosa all’orecchio dell’uomo, ma questo non dice nulla, semplicemente aggrotta le sopracciglia con fare stanco, vagamente stizzito, e posa la sua mano grande sul volto scarno della ragazza, letteralmente tappandole la bocca e spingendola a sedersi su uno sgabello li vicino. La giovane donna non oppone la benché minima resistenza, obbedisce senza fiatare, ma nel momento in cui il tocco dell’uomo la abbandona un fremito scuote la sua figura esile, a stento difesa dal freddo e dagli sguardi impertinenti degli astanti. Rimane lì, ferma e rannicchiata su se stessa, e non c'è niente in quegli occhi chiari, nulla in quello sguardo vacuo e fuori fuoco mentre fissa il proprio grembo, nulla in quella schiena curva e ossuta che spunta dalla seta vecchia e sfilacciata.

    Sembra proprio mamma.

    <anche io.> Irwyn quasi sente le parole sgorgare dalle sue labbra spaccate dal vento freddo e dalla salsedine. <anche io sono come te.>

    Ma in questo mondo all’orlo dell’oblio, ognuno non è altro che una piccola isola dispersa in un oceano di lacrime e sangue che non fa altro che espandersi. Non c’è tempo, né la forza, per attardarsi a inseguire chi rimane indietro, chi prende altre strade.

    E quindi Irwyn sta zitto di fronte allo sconveniente spettacolo di una prostituta che piange, e per la seconda volta in pochi minuti, distoglie lo sguardo.

    Poi, l’uomo si muove, scende i tre gradini che separano il casino sgangherato dal selciato. Nonostante la formidabile corporatura, è impossibile non notare la grazia burbera, l’eleganza guerriera, con cui l’uomo si muove, si avvicina, passo dopo passo, tuono dopo tuono.

    L’uomo si ferma al tavolo di fortuna intorno a cui la ciurma si era radunata, prende il fagotto che Irwyn aveva tanto arrogantemente lanciato, lo svolge. Rapidamente passa in rassegna il contenuto, e Irwyn avvampa mentre tutto quello che possiede viene sbandierato davanti a tutto e tutti: un paio di bottigliette d’acqua, alcune razioni, tutto cibo secco e impacchettato, quelle cose che hanno una data di scadenza solo per obbligo di legge ma che in realtà potrebbero resistere anche decenni lasciate a se stesse; soldi, diverse centinaia di euro, sporchi di sangue già diventato marrone ma accuratamente avvolti in piccoli rotoli, che l’uomo non considera nemmeno; cesoie, leggere e ancora forti nonostante la ruggine che lui ha provato a raschiare via come poteva, di quelle che usano i giardinieri per tagliare i rovi e che hanno salvato Irwyn più di una volta. Il suo fedelissimo coltellino svizzero, il suo compagno e migliore amico.

    E poi, poi il suo piccolo tesoro, la cosa su cui puntava di più come merce di scambio: decine e decine di blister di carta plastificata, diverse bustine, alcuni flaconi con delle siringhe. Farmaci, medicine, tanti antibiotici, ancora più antidolorifici, tutti presi quella volta che si era imbattuto in un paese ormai raso al suolo e abitato solo da cadaveri, con una farmacia che non sapeva che fare, ancora in piedi - a fatica - in una realtà che non aveva più bisogno di lei e dei suoi servigi. Irwyn aveva letto tutti i bugiardini e fatto man bassa di tutte le cose che potevano essere utili, che potevano essere interessanti. Gli antidolorifici erano già risultati utili più di una volta.

    C’erano anche altri farmaci, in quel posto. Potenti, troppo potenti, di quelli che non ti fanno sentire niente anche se sei a un passo dalla morte. Quelli che a volte vorresti avere sotto mano quando le cose si fanno tanto, troppo pesanti. Quelli che magari dei pescatori cinici e disillusi potrebbero effettivamente aver piacere di usare, per passare i giorni di vita rimanenti…

    Ma quelli se li è presi tutti il mare, tutti insieme in un solo boccone, e non c’è bisogno che nessuno lo sappia mai.

    (Eppure lui sa. Quegli occhi incandescenti sanno tutto, vedono tutto.)

    Dopo un minuto di silenzio assoluto in cui a Irwyn sembra di essere stato spogliato e messo alla gogna, finalmente l’uomo richiude il fagotto e glielo lancia, piano, gentile, quasi dolce. Irwyn lo afferra al volo senza problemi.

    E si avvicina ancora, con quel suo passo pesante che anche la terra sembra tremare sotto il suo piede, e si ferma a pochi passi. Alto com’è rispetto al ragazzino, svetta imponente almeno di mezzo metro al di sopra di lui, tanto da costringerlo a inarcare il collo per mantenere il contatto visivo.

    È come essere in presenza di una montagna, una montagna che dopo tanto tempo e numerose considerazioni ha deciso di muoversi, di agire. E Irwyn è li, niente più che una piccola formica di fronte agli altissimi picchi scoscesi, duri e freddi che lo guardano dall’alto in basso, chiedendo cosa ci fa una formica lì dove mai dovrebbe trovarsi, e nemmeno lei lo sa esattamente.

    I due si fissano per un lungo momento.

    “Perchè?”

    Una parola. Una singola parola, semplice, concisa, quasi innocente. Eppure il suo peso è insopportabile mentre si espande nell’aria tra l’uomo e il ragazzo, le sue spire si librano e dipanano e stiracchiano pigre, solo per ricadere e avvolgersi intorno alle spalle di Irwyn, intorno alla gola, dentro la gola, e ancora più giù, giù giù giù, fino ai polmoni, e lui soffoca in quella parola, affoga nell’abisso senza fondo che si insinua negli spazi, sottili ma innegabili, tra sei maledettissime lettere.

    Perché. Perché.

    Perché non è normale, dover dormire con un occhio aperto, il cielo stellato come soffitto e la terra umida come materasso. Non è normale che un ragazzo non ancora del tutto adolescente debba sgattaiolare come un ladro, il ladro che adesso effettivamente è, e sopravvivere tramite la morte di tanti altri, mettendo le mani nelle loro tasche, nei loro corpi.

    Perchè se c’è Giustizia Divina, è tempo che finalmente si palesi.

    < Perchè io devo sapere perchè sono vivo.>

    Ma le parole essiccano sulle labbra, scheletri tra le sabbie aride di deserti che un tempo erano fondali oceanici. L’aria manca, risucchiata da quella presenza immensa che si staglia lì davanti a lui.

    L’uomo si siede, si abbandona a cavalcioni di una sedia li vicino. I suoi occhi non abbandonano mai Irwyn mentre pone le sue domande, un po’ ciniche, un po’ sardoniche, e Irwyn boccheggia, ansima, non riesce a sostenere quello sguardo di brace, deve guardare in basso, verso la terra solida e fredda.

    Amhalgaidh Ó Bradáin. É quello il nome dell'uomo. È un bel nome, gaelico. Irwyn sa ben poco di gaelico, ed è una cosa che non gli è mai andata particolarmente a genio.

    Il silenzio cade di nuovo, pesante quanto un sudario intriso di acqua e aceto sbattuto malamente in faccia. Deglutisce a fatica, la bocca secca sfrega, le labbra già screpolate si riaprono e sanguinano nel momento in cui le mordicchia, le stuzzica con l’incisivo.

    “Raccontano che la Giustizia tenga la Vittoria per mano e sieda su un trono tutto d’oro zecchino, che si erge dove la calda luce del sole Mediterraneo benedice la terra di Grecia al mattino.”

    Questo è quello che aveva detto il Vecchio, parola per parola, gli occhi scuri scintillanti tra le rughe profonde mentre Irwyn pendeva dalle sue labbra e faticava solo ad immaginarla, una visione simile. Vero, non vero? Irwyn non lo può sapere. Può solo credere, provare a crederci, perché l’alternativa - l'unica - è semplicemente impensabile.

    “E perchè deve stare solo in Grecia? Perchè la Sua luce non raggiunge fin quaggiù?”

    Giù, nelle profondità più insondabili, dove la vita si deve distorcere al di fuori di forme che l’uomo è in grado di concepire, solamente per difendere il proprio diritto di essere, di esistere.

    “Quella luce. Quella luce è di tutti. Deve essere di tutti, per tutti...”

    Eppure c’è, persiste nonostante le avversità, riaffiora. Un lampo, un bagliore, un ventre bianco che guizza a pelo dell'acqua, quel tanto che basta per riempirsi i polmoni d'aria prima di tornare giù.

    Ma lui è stanco. Troppo stanco di trattenere il fiato e andare giù, di resistere fino al prossimo respiro che sembra non arrivare mai.

    “...E la voglio vedere anche io.”






    - Energia: Bianca
    - Status Fisico: sempre molto stanco.
    - Status Mentale: provato, irrequieto, ma anche determinato. Ne ha passate troppe in questi mesi per arrendersi alla prima magagna
    - Cloth: //
    - Abilità: //
    - Tecniche: //
    - Riassunto Azioni: //







    I'm super lateee. Scusami, sono una scrittrice lenta. :sgrunt: farò il possibile per accelerare. Edit:
    cambiato il sottotitolo del post, avevo scordato di cambiarlo


    Edited by °Aria° - 8/2/2024, 17:13
     
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    Insegui un mito, un sogno, forse una favola ragazzo.

    Nessun accenno di scherno, la sua postura, a sua espressione, il suo tono di voce. E' duro e brutale quanto la verità.

    Si china appena, arrivando con gli occhi alla tua stessa altezza.

    Un gesto che non passa inosservato, sembra essere il tipo di persona che difficilmente si pone alla stessa altezza dei suoi interlocutori, specialmente se potrebbero essere clienti, o prede.

    I suoi occhi scuri sembrano avvampare improvvisamente.
    Hai mai conosciuto giustizia? ti chiede lentamente, scandendo bene le parole Hai mai incontrato una vittoria?

    Con il braccio destro allarga la tua visuale, mostrandoti uno scorcio dell'imboccatura del porto.

    Il mondo è impazzito, se mai è stato possibile considerarlo sano.

    Chiude la mancina a pugno, sbattendolo senza forza - solo per produrre un rumore secco - sul tavolo improvvisato.

    E te vuoi arrivare fino in Grecia, cercando un qualcosa che credi esistere?

    Il tono di voce rimane serio, non vi è nulla di ironico in quell'uomo ed il solo accenno di una risata da parte dei quattro scannagatti li vicino vengono zittite da un boccale di coccio contenente quello che speri essere birra calda (in relazione al colore del liquido), lanciata dallo stesso uomo che non ha mai, MAI staccato i suoi occhi da te.

    Sembra come incitarti a sostenere il suo sguardo.

    Il viaggio è quasi sicuramente una condanna a morte appena usciti dal porto. Siamo riusciti a fatica a barricare il fondale dell'imboccatura.

    I suoi occhi si socchiudono pericolosamente, come se stesse riflettendo su una questione intrigante.

    Se vuoi raggiungere la Francia, come dici.

    Indicò un peschereccio vecchio ma che presentava un robusto fasciame in legno, appena calafatato a giudicare dall'odore di impregnante e pece e dalle venature scure delle intersezioni dello scafo che rivestivano costole ed ordinate, venature dovute proprio all'apposizione di stoppa e pece a chiudere le inevitabili fessure di uno scafo in legno che si asciuga.

    Prendi la vecchia Pequod. Adesso sono curioso di vedere fino a dove arriverai, ragazzo.

    _________________________________________

    Sono passati alcuni giorni

    Sei in mare.
    Solo.
    O quasi.

    Da quando hai abbandonato il porto ed iniziato la tua traversata oceanica, a farti compagnia vi è un gabbiano, che sembra seguirti nella rotta che hai deciso di seguire.

    Sono giorni noiosi, sei completamente solo in una barca che devi governare, imparare a governare.

    Esseri multi forma li vedi nuotare spesso, intorno alla Pequod eppure, nessuno sembra toccarti o anche solo vederti / percepirti.

    Fino all'ultima volta.

    Percepisci il rumore, l'onda d'urto e la sensazione di sollevarti dal ponte della barca.

    Ti ritrovi in aria e vedi la Pequod in frammenti, ti sembra di vedere la chiglia alzarsi, unico pezzo completamente intero della nave, riportante una serie di sigilli uguali lungo tutta la sua lunghezza.
    atena07

    Percepisci il contatto gelido dell'acqua e, nel buio delle profondità marine, ti sembra di intravedere un qualcosa di mostruoso strisciare via mentre si accanisce con molteplici appendici, contro i frammenti in legno della barca, ad esclusione della chiglia al tuo fianco.

    _________________________________________

    Freddo, il peso percepito e lo shock della situazione del naufragio.
    Sei solo e, alzando lo sguardo, vedi l'impertinente gabbiano gracchiare per poi sparire volando chissà dove.

    Stai affondando nell'oscurità abissale quando improvvisamente un qualcosa di argenteo ti circonda e ti ritrovi...

    _________________________________________

    Apri gli occhi di scatto.
    Sei sveglio.

    Hai sognato il tuo passato.

    Di nuovo.

    Sono passati anni da quando una ragazza dai capelli viola e con una maschera sul viso ti raccolto, non capisci ancora come, dall'abbraccio mortale dell'oceano.

    Hai raggiunto con lei la tua meta, la Grecia.

    Le favole erano vere.

    Ti sei dato da fare negli anni.

    Ora sei stato scelto per una spedizione esterna insieme ad una rappresentanza di una squadra dei Reclamatori di Athena.

    Sei in attesa insieme ad altri 4 membri della spedizione, due ragazzi ed una ragazza.

    CITAZIONE
    MASTER CORNER:

    Tutto un piccolo flashback come sogno del passato del tuo pg.
    Non sai chi sia la ragazza dai capelli viola (ma la rivedrai a breve non ti preoccupare)

    Da quanto ho letto finora sono sicuro che sei perfettamente in grado di cavartela in questo post: la parte del ricordo, le sensazioni centrali, i tuoi anni passati al Grande Tempio / Rodorio, fino a questa opportunità.

    I tuoi quattro compagni li conosci (puoi chiamarli come vuoi, chissà che non diventino magari tuoi PNG).
    Chiacchierate della missione fino a quando una ragazzina dai capelli rossi e la tua famigerata sconosciuta salvatrice del passato si presentano di fronte a voi.
     
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    Shepard - III - Albatross

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    Irwyn tace.

    L'uomo riversa quelle verità, crude ma non crudeli nella loro onestà senza veli, su Irwyn con voce ferma e solida, eppure non priva di una certa dolcezza, quasi tenerezza. Piano, lentamente, inonda il capo del ragazzo con quelle parole, un macabro battesimo di realtà torbide e dense che lasciano una scia cremisi dietro di sé.

    Giustizia, Vittoria? Concetti sconosciuti, parole straniere prese in prestito che lasciano un sapore esotico sulla lingua, frizzante, lievemente speziato. Un sapore che vuole di più, ancora più di se stesso, esplode in un tripudio di egocentrico calore che lascia la gola arida di desiderio.

    L’uomo si avvicina di un passo ancora; l’odore pungente investe Irwyn, la particolare miscela di alcool e sudore e qualcosa di più, di due corpi che sublimano insieme un’ultima volta, l’odore di un profumo da due soldi ormai vecchio e mezzo evaporato che si attanaglia tenacemente alla pelle.

    Amhalgaidh si china su Irwyn, lento e maestoso come un’ immensa onda mentre si curva sulla riva prostrata al suo cospetto, i suoi occhi non rifuggono mai quelli del ragazzo. Al contrario, quello sguardo duro si avvolge intorno alla sua figura, lo tira su, lo sostiene, lo trattiene a sé. È semplicemente impossibile guardare altrove, anche quando l’uomo sbatte un pugno sul barile, facendolo sobbalzare, o quando i marinai radunati lì intorno sghignazzano sguaiatamente di fronte alle illusioni stupide di un ragazzino disperato; anche quando Amhalgaidh - facendo mostra di una eccezionale agilità e precisione che a prima vista mal si sposa con la sua figura possente, ma che ha perfettamente senso - senza nemmeno prendersi la briga di guardarli scaglia verso di loro un boccale che era li vicino, pieno di un liquido chiaro, paglierino, e gli uomini schiamazzano e boccheggiano e imprecano rudemente; alcuni cadono rovinosamente in terra nel tentativo vano di schivare gli schizzi.

    “Il viaggio è quasi sicuramente una condanna a morte appena usciti dal porto. Siamo riusciti a fatica a barricare il fondale dell'imboccatura.”

    Una condanna a morte.

    È vero, Irwyn non lo può negare, nemmeno a se stesso. L’impresa è pericolosa, quasi impossibile. È probabile, quasi certo, che morirà ben prima che riesca anche solo ad avvistare le coste del Continente.

    Eppure qual’è l’alternativa? Quali sono le sue opzioni? Alla fine, è solo un dover scegliere di che morte deve morire, come in ogni altro istante della vita di chiunque in questo mondo. Non è forse meglio provarci, e diventare cibo per i pesci nel corso dell’impresa, che rimanere qui in questo sputo di terra abbandonata da tutto e da tutti, fermi immobili ad aspettare come bestie da macello l’inevitabile massacro?

    È stufo. Stufo di essere niente di più che una sardina senza un banco, in un mare di leviatani.

    Forse parte dei suoi pensieri traspare, affiora sul suo viso, un macigno troppo grande per essere completamente avvolto nelle profondità del suo cervello ancora troppo giovane e poco sviluppato per contenerlo tutto. L’uomo lo fissa intensamente, il suo sguardo si affila di curiosità, punta proprio sul chi vive.

    “Se vuoi raggiungere la Francia, come dici,” Alza la mano grande e grossa, indicando qualcosa in lontananza. “Prendi la vecchia Pequod. Adesso sono curioso di vedere fino a dove arriverai, ragazzo.”

    Il ragazzo segue quel dito con lo sguardo, e il cuore di Irwyn fa uno strano salto nel suo petto.

    Una barca.

    Una barca piccola, vecchia, di quelle che venivano usate comunemente mezzo secolo fa, ma agli occhi stanchi di Irwyn pare un vascello sfavillante, grondante di promesse e speranze.

    Oramai è strano pensare a una vita normale, com’era prima dell’inizio della fine, in cui i pescatori erano davvero pescatori e non si riducevano a fare i pirati - o i traghettatori di anime malcapitate, il cui solo peccato mortale era stato l’essere arrivati vivi all’apocalisse.

    “È bellissima.”

    Esce spontaneo e incontrollabile, una ferita aperta, l’itto rapido e galoppante di un cuore in balia della tempesta che vede la luce del faro apparire all'orizzonte. Si gira nuovamente verso Amhalgaidh, la gola gonfia di emozione, tumida di cose che non si riescono a mettere nero su bianco.

    “Grazie.”

    Si volta, si avvia, verso quell’unica chance a cui la vita finalmente, dopo tante preghiere, concede la mano ossuta e ruvida, forse in una forma di elaborato tiro mancino, forse in un ultimo tentativo di autopreservazione. Si rimette il fagotto in spalla mentre va, un passo traballante dopo l’altro, sempre più veloce, sempre più incauto. Inciampa tra le pietre smosse sull’asfalto vecchio e liso, la caviglia si piega per un attimo su un sasso particolarmente fetente, stendendo il ragazzo lungo lungo in terra. Pensa di sentire una risata, bassa e roboante, farsi strada nel terreno a spallate. Si rimette in piedi.

    A pochi passi dalla Pequod, si ferma, ammira, annusa. La barca è indubbiamente segnata dal tempo e dai numerosi viaggi, ma l’odore penetrante di pece data di recente si incunea nel suo naso, stuzzica la curiosità, richiama a sé quella complessa rete di connessioni nervose che oscillano periodicamente tra l’eccitazione e la paura. Una regina dei mari anziana ed esperta, elegante nella sua semplicità che le ha concesso di domare centinaia di onde, non diversamente da come una matrona sa domare centinaia di amanti.

    Irwyn prende un respiro profondo, si immerge in quell’aria pesante e carica. Con la coda dell’occhio, butta un ultimo sguardo a quel gruppetto di uomini segnati dal tempo e dal mare.

    “Ci arriverò, in Grecia. È una promessa, sir Amhalgaidh.”

    Non urla, non alza la voce. Lascia che il vento prenda le sue parole in carico, che la brezza di mare le raccolga sulle sue ali d’argento e le semini su queste terre brulle e congelate. Forse fioriranno, forse periranno miseramente, come una qualunque promessa di novello marinaio; non sarebbe la prima, e nemmeno sarà l'ultima.

    E quindi, fagotto fermamente in spalla, china il capo in rispettoso congedo, e si avvia sulla Pequod.



    ---



    “Merda.”

    A Irwyn non piace imprecare. Il linguaggio scurrile gratuito degli adulti e sempre più frequentemente usato anche dai suoi coetanei non lo ha mai attirato, e ha sempre pensato che chi ne fa un uso eccessivo è perché non ha nient'altro di meglio da dire.

    Forse perché tante, troppe volte quelle parole dal suono rozzo e volgare erano state tirate come sassi verso di lui e sua madre. Forse il rifiuto di prendere quella pietra in mano e lanciarla a sua volta verso qualcun altro è chissà quale arcano meccanismo con cui la sua testa processa il trauma.

    Ma quando ci vuole ci vuole. E quando hai un palmo quasi squartato in due, grondante di sangue che cola lungo l’avambraccio e si insinua sotto la manica della giacca già madida d’acqua salmastra… eh, li ci vuole per forza.

    Con la mano destra ferita tenuta in alto, ficca la sinistra - anch’essa tutta infiammata e spellata, ma almeno non determinata a svuotarsi di ogni goccia di sangue che possiede - dentro al fagotto umido, setaccia tra le poche provviste e la sua piccola farmacia portatile. La plastica dura sferza la pelle, fino a che le sue dita finalmente non si chiudono su un flaconcino e un pacchettino soffice. Bende raggomitolate. Non gliene rimangono molte ormai.

    “Maledizione.” Irwyn borbotta piano, mentre con la mano sana irrora di acqua ossigenata la ferita e avvolge le bende intorno al palmo leso. Maledizione.

    Con lo sguardo fulmina quella maledetta scotta, artefice del taglio. A suon di cazzare e lascare, la spessa corda in tessuto sintetico aveva infine avuto la meglio sulle carni ancora tanto, troppo tenere delle sue mani. Ci vorrà ancora tempo prima di sviluppare i calli spessi che gli consentiranno di tirare e svolgere le cime rapidamente e con facilità.

    Un verso acuto si fa sentire da qualche parte sopra la sua testa. Irwyn alza lo sguardo, e dopo diversi giorni non è ormai più stupito di vedere un gabbiano librarsi a pochi metri da lui, le ali ampie e forti e bianchissime perfettamente immobili nella brezza.

    “Non ridere! Vorrei vedere te al posto mio.”

    Come se fosse utile, o ragionevole, parlare a un gabbiano. Ci ha provato, nei giorni scorsi, per cercare un contatto, un qualcosa. Gli ha anche dato un nome, così, per scherzo, che poi tanto scherzo alla fine non è.

    Stella.

    Non è che Irwyn sappia se il gabbiano è maschio o femmina, ma poco importa; quel che conta è che è lì, sempre a pochi metri più in alto, con le sue ali di un candore tale che sembra rifulgano di un bagliore argenteo, un diamante tra le chiome fulve del cielo pigro del tramonto, infiammate di crepuscolo ardente

    È lì, a cavalcare i venti al fianco di Irwyn e della Pequod verso Sud. La sua piccola, personalissima Stella Polare, sempre lì con lui a mantenere la rotta, a vegliare su di lui dall’alto.

    Non è molto, in termini di compagnia, ma è una presenza confortante, se non altro per la sua imperterrita costanza. Non ci era più abituato, a un qualcosa che sta, che rimane, che perdura.

    E quindi sorride, Irwyn, un sorriso piccolo e stanco ma che resiste, mentre quel raggio di luce bianca illumina le sue giornate uggiose; giornate di acqua salata che lo schiaffeggia sulle guance, di tagli sulle mani che non fanno in tempo a guarire prima che ne compaiano altri, di prestare costante attenzione al boma che sembra scoppiare di voglia di spaccargli il cranio tutte le volte che il ragazzo sbaglia a regolare la vela.

    Sorride, e va, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Ogni miglia compiuta è un’educatrice severa e pignola ma corretta, ogni nodo un insegnante brutale, ma giusto. La navigazione progressivamente si fa più tranquilla, più fluida; tra non molto tempo non avrà più bisogno di bendarsi le mani per tirare una cima, per annodarla come si deve.

    Ed è ovvio, per chiunque che non sia Irwyn, che non può durare a lungo.

    Era da un po’ che le vedeva di nuovo, le cose. Cose dotate di pinne e branchie invece di artigli e polmoni, ma sempre di cose si trattano. Forme diverse, adatte ad habitat diversi, ma sempre corrotti, marci di crudeltà fino al midollo.

    Ma fino ad adesso le creature non gli avevano dato problemi, nemmeno lo avevano considerato. Finora, si erano accontentati di scivolare pigri al di sotto della Pequod, senza mai importunarla. Dopo i primi incontri carichi di tensione, Irwyn aveva iniziato a rilassarsi, a riposare sugli allori.

    Lo schianto è devastante.

    È così rapido che Irwyn nemmeno se ne rende conto, non finché i suoi piedi si ritrovano a scalciare per aria, a nuotare nel vuoto; mare e cielo si fondono nel ventre della notte e si scambiano di posto, e lui vola nel mare senza stelle e affoga nella notte profondissima mentre la Pequod strilla di dolore, si accascia ferita sul pelo dell’acqua.

    Lo sbalzo è imponente, e il ragazzo cade rovinosamente in acqua tra mille spruzzi di spuma bianca.

    Bianca e fredda.

    Il freddo è terribile, crudele, dal morso profondissimo che si attanaglia intorno agli arti e dilania selvaggiamente le carni. È un milione di ventose che si attaccano al corpo, che succhiano il sangue dalla pelle, rubano tutto il calore per lasciare solo vuoto, vuoto ghiacciato che solidifica il sangue e fa condensare l’aria ancora intrappolata nei polmoni, e Irwyn affoga da fuori e da dentro mentre quel freddo lo schiaccia nella sua morsa.

    Ma no, no, non può andare così. Non può, non deve, ha promesso. Scalcia furiosamente contro i vestiti pesanti intrisi di acqua che lo trascinano giù con pietosa dolcezza, la violenza del movimento infrange i fragili frattali sui tendini congelati del terrore e del freddo; scalcia e si dimena, fino a che la superficie si infrange sopra di lui, e l’aria è deliziosamente dolce e speziata nella sua gola.

    Ansima, e le onde agitate lo schiaffeggiano in piena faccia, mandando una boccata di acqua salata dritto in gola. Sputa e tossisce; tra le onde che progressivamente si fanno più violente, i vestiti saturi, l’ossigeno che viene a mancare mentre tutte le sue energie si incanalano nelle gambe, nelle braccia, finché bruciano tutte, ma è un bruciore che fa male, che lascia solo ancora più freddo dietro di sé, ogni secondo sembra l’ultimo, ed è sempre più difficile mantenere la testa sopra la superficie.

    La Pequod si piega, si spezza, le vecchie ma belle vesti di legno infine si aprono e si lacerano mentre orribili appendici appiccicose si avviluppano intorno alla carcassa, rivelando la chiglia a medio spiazzamento agli occhi di tutti.

    La chiglia. La chiglia. Forse è Irwyn che comincia a uscire fuori di testa dallo sforzo, dal freddo e dallo shock, ma la chiglia splende, splende del bagliore delicato e pulsante di un minuscolo sole, una piccola stella d’oro partorita dalla spuma delle onde e ancora troppo giovane per stracciare appieno i veli funebri della notte, la notte più triste e cupa, la notte che aspetta in lutto che la luna rinasca nuova e piena. Dei simboli dorati compaiono lungo tutto il bordo della chiglia, simboli circolari simili a rune, ma strane, simili a occhi tutti d’oro che tutto vedono, e Irwyn si sente visto, osservato, scansionato a livello molecolare da quella luce radiante.

    La chiglia brilla, unico pezzo che ha resistito all'assalto. Unico pezzo che il mostro sottostante non sembra intenzionato ad attaccare.

    Un’ondata sollevata dal gran dimenarsi della creatura sommerge Irwyn per intero, lo spinge sotto con mano ferrea, con pugno duro. Lui combatte strenuamente, troppo strenuamente contro quella corrente spietata. Le gambe rallentano la loro tarantella subacquea, le mani raggrinzite non riescono più a spostare acqua abbastanza velocemente. Il sale invade liberamente la gola, la trachea, i polmoni, l’ossigeno fugge in grosse bolle da quelle vie aeree così interamente conquistate.

    Un urlo muto, che si disperde in acqua ancor prima di dipartire. Irwyn affonda, centimetro dopo centimetro, i capelli ora liberi si gonfiano intorno al suo viso, ma il suo sguardo si lancia in alto, arpiona il pelo dell’acqua, si aggancia sulla figura chiara, troppo chiara, del gabbiano. Stella, la candida Stella, che gracchia e stride mentre vola in ampi cerchi sopra al naufragio, e forse ride, forse piange, Irwyn non sa dirlo. Non sa più niente.

    < Alla fine, era davvero una promessa di marinaio.>

    Un ultimo pensiero amaro a cui dedicare le ultime forze. Oltre lo specchio dell’acqua, Stella lancia un ultimo grido stridulo non ridere e con un singolo battito di quelle belle ali d’argento se ne vola via.

    Fa bene. Non è rimasto molto da vedere, ne da fare. Forse, al suo posto, anche lui se ne sarebbe volato via da una causa persa.

    L’oscurità avanza, si estende dai bordi del campo visivo in lunghi tentacoli picei. Piccole stelle bianche galleggiano, minuscole lucciole che durano meno di un battito di ciglia.

    Ma sono tante, sempre di più. Sbatte gli occhi per un’ultima volta, l’acqua salata brucia e si insinua tra le ciglia, e un bagliore argenteo sembra inondare gli abissi incipienti. Un qualcosa di impalpabile, ma caldo, si avvolge intorno alla sua forma spezzata, e poi…

    E poi…



    ---





    E poi gli occhi si spalancano, e Irwyn Murphy si ritrova a fissare il soffitto.

    I polmoni si espandono, gli alveoli ridono e sfrigolano al passaggio dell’aria umida e piacevolmente fresca dell’inverno Mediterraneo. Un respiro profondo, un altro, un terzo. È nel suo letto, con le coperte aggrovigliate in un nodo improbabile intorno al suo corpo, ed è vivo; beatamente, meravigliosamente vivo.

    Piano piano, Irwyn si districa tra le coperte attorcigliate e si solleva in posizione seduta; i lunghi capelli turchesi cadono in fiotti lungo la schiena, accarezzano la pelle nuda del torso, sfiorano le numerose cicatrici che il tempo ha conferito al suo corpo di giovane uomo come medaglie al valore nel corso del tempo.

    Tempo… Anni ormai. Quasi una decade intera. Che strano che è, il tempo; ogni tanto gli sembrano passati appena dieci minuti, figuriamoci dieci anni.

    Dieci anni, da quel naufragio nel bel mezzo della Manica, da quel momento in cui si era ormai rassegnato a finire in pasto ai pesci, a sparire, solo un altro corpo perso fra i flutti come migliaia prima di lui.

    Flette una mano, quella mano che si era tagliata con la cima, la stende nella luce dell’alba che filtra in lame senza taglio dalle persiane chiuse; anche li c’è una cicatrice, sbiadita ormai al punto che a stento è visibile, il più sottile velo di madreperla intarsiato nella pelle ora dura, ora callosa abbastanza.

    Ce l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta davvero, contro tutte le probabilità.

    Ormai ha poco senso tornare a dormire, la luce del sole bussa insistentemente alla finestra e il sonno sembra essersi dissipato, disperso come semi di un dente di leone in mano a un bambino curioso. Uno sguardo veloce all’orologio conferma che sono le cinque e mezza di mattina. È tempo di alzarsi.

    E quindi scalcia via le coperte, con calma esegue la sua toilette mattutina, mangia un boccone veloce, si veste, si pettina e si lega i capelli in una coda bassa. Davanti allo specchio, esita nel vedere una lieve ombra color porpora dipingersi sotto i suoi occhi.

    È già la terza volta, questo mese. La terza volta che sogna - no, non sogna, ricorda - quel momento, quel giorno fatidico in cui il suo destino è cambiato, le stelle si sono voltate, ribaltate.

    Quel giorno in cui una ragazza era comparsa dal nulla, e senza dire una parola l’aveva condotto in quel di Rodorio, ai piedi del Grande Tempio di Atena, in Grecia, dove era stato accolto in una struttura piena di orfani e rifugiati come lui.

    Chissà dov’è, adesso, quella donna dal misterioso volto d’argento, che mai aveva rivelato il suo nome al ragazzo intirizzito che, chissà come, aveva letteralmente pescato dal mare, quella ragazza che mai gli aveva rivolto la parola oltre gli ordini più basilari, ordini quali “Alzati”, “Cammina”, “Bada al fuoco”.

    All’inizio, il piccolo Irwyn aveva provato in tutte le maniera di carpire informazioni dalla donna, e, anche dopo che lei l’aveva portato nella struttura di accoglimento, Irwyn aveva sempre fatto carte false per eseguire i compiti che più frequentemente lo avrebbero portato intorno alle porte del villaggio, dove era più frequente incrociare i cavalieri e altre figure a essi collegati che avevano la forza di andare oltre le mura; aveva sempre cercato, tra i numerosi valorosi che affrontano l’orrore di fuori, quella maschera chiara, quello spruzzo di capelli lilla.

    Ma il tempo era passato, la vita era andata avanti. Piano piano, frustrato dai numerosi fallimenti, Irwyn aveva smesso di cercare, e si era semplicemente dedicato ad andare oltre; a lavorare, a farsi venire i calli aiutando nei campi, e poi allenarsi, giorno dopo giorno, cosicché anche lui, forse, avrebbe un giorno potuto essere uno di quegli individui che oscillano tra eroismo e pazzia, e provano a combattere per reclamare ciò che dovrebbe essere loro.

    Dieci anni dopo, il giorno era finalmente arrivato, e ovviamente doveva sognarla di nuovo, stanotte tra tutte le notti possibili, quella ragazza.

    Sbuffa. Forse una bella nuotata nel torrente che scorre vicino a Rodorio potrà schiarirgli un po’ le idee.

    È una cosa che fa spesso, quando i pensieri lo tormentano, quando i ricordi di quei momenti bui sono in procinto di sopraffarlo. I suoi compari lo prendono in giro bonariamente per questo - amici, e fa strano dirlo, fa strano pensarlo, ma qui, lontano da quel villaggio piccolo del Nord, non è importante che non abbia un padre, perché qui, adesso, averne uno è un lusso che ben pochi possono permettersi.

    É tanto, troppo triste da pensare.

    Si avvia, esce dal centro paese con passo svelto, si incunea nella vegetazione circostante. Nessuno lo richiama o gli intima di tornare indietro; in effetti ormai nessuno si sorprende più di vederlo sgattaiolare via, per poi tornare poco dopo, con i capelli bagnati ma un nuovo sorriso sul volto.

    Non è distante, in realtà, e la benedizione del Tempio di Atena si estende a un breve tratto quel torrentino piccolino che d’estate secca troppo presto, per cui, se fa attenzione, i rischi sono relativamente minimi. E se anche un Corrotto volesse provare a tirare un morso, così, per curiosità… Beh, Irwyn di sicuro non è un cavaliere, ma ha tutta l’intenzione di farsi valere.

    Si sveste rapidamente una volta giunto sulla piccola riva del rigagnolo di pochi metri di larghezza e un metro e mezzo di profondità. L’aria frizzante dell’inverno graffia la pelle, senza lederla. È buffo come Cyra non fa altro che lamentarsi del freddo in questi giorni, ma Irwyn andrebbe volentieri in giro a maniche corte.

    Anche l’acqua è fredda, più fredda dell’aria circostante, abbastanza da farlo rabbrividire tutto nel momento in cui si immerge, ma va bene, è quello che vuole. Il corpo fende facilmente la debole corrente, il freddo congela paure e ansie, che vengono poi spazzate via dalla corrente stessa. La mente si schiarisce, si alleggerisce, si sgombra. Potrebbe rimanere qui a sguazzare per sempre.

    “Lo sapevo che eri qui!”

    Ovviamente.

    A mezza bracciata, Irwyn si volta verso la riva. Lì, appoggiato a un albero, la divisa dei Reclamatori già indossata e le braccia conserte da cui pende un ampio asciugamano, c’è un ragazzo alto e smilzo, con capelli castani corti e occhi tanto marroni quanto sono caldi e gentili.

    Lucas, il suo migliore amico, compagno di stanza dai primissimi momenti in cui Irwyn aveva messo piede a Rodorio, e sua sedicente guida della cittadina sin da allora, perchè - l’allora ragazzino soleva dichiarare pomposamente - Lucas era più vecchio di ben sei mesi, ed era lì da più tempo, era il suo senior, ed era dunque sua responsabilità mostrare i dintorni al nuovo arrivato.

    (“Solo per un po’.” Lucas diceva. “Poi sarai abbastanza grande da cavartela da solo. Non ci sarò sempre a starti dietro!”)

    Dieci anni dopo, Lucas è sempre dietro a Irwyn, e Irwyn è sempre dietro a Lucas. È intrinseco ormai, una legge di natura; dove va uno va anche l’altro.

    Irwyn agita la mano in saluto.

    “Ehilà!”

    Può sentire l’ira funesta di Lucas montare sin da qui.

    “Ehilà? Ehilà?!?! È tutto quel che sai dire dopo che sparisci per tre ore in un giorno tanto importante?!?”

    Hm, non ha tutti i torti.

    “Due ore e tre quarti.” Risponde Irwyn serafico mentre nuota verso riva, si rialza in piedi. Lucas l’ha visto troppe volte per impressionarsi e tanto meno per rimanere impressionato - e viceversa - e non si sente in imbarazzo mentre cammina verso il compagno, che prontamente gli porge l’asciugamano. “Teso?”

    “Secondo te?” Ma l’animosità di Lucas ha vita breve. Sospira, e le sue spalle si fanno curve, troppo curve di angoscia. “Non te lo nascondo, Irwyn, ho un po’ di paura. E anche tu, se stai qui a sguazzare come una rana in uno stagno poche ore prima di partire.”

    Lucas lo conosce troppo bene. Senza confermare ma anche senza negare, si passa l'asciugamano addosso, si riveste velocemente.

    “È successo di nuovo, stanotte.”

    Lucas prende l’asciugamano che Irwyn gli porge. Lo piega ordinatamente, con attenzione quasi maniacale, come se fare ciò bastasse a riordinare fisicamente anche i pensieri.

    “Il sogno, intendi?”

    “Si.” Irwyn annuisce, si strizza i capelli, togliendo tutta l’acqua in eccesso. Lucas l’ha sempre detto che sono troppo lunghi, ma non gli ha mai dato retta e mai lo farà a questo punto. “È sempre uguale. Il naufragio. Quelle cose strane dorate. La ragazza.”

    Lucas schiocca la lingua. “Quella dimenticatela, dammi retta. Bros before hoes, ricordatelo sempre.”

    “Non è per quello,” Irwyn fa per tirargli un pugno bonario, che Lucas schiva facilmente. “E poi vallo a dire a Sam. È lui che fa sempre lo scemo con Sylvia.”

    “Samuel è una causa persa. Non mi va di sprecare fiato su chi non vuole sentire e si lamenta pure di essere sordo.”

    Si rimettono in cammino, il passo svelto attraverso le frasche che li separano dalle zone della Terra Santa. C’è un silenzio carico di tante cose che non hanno il coraggio di essere dette.

    Quella potrebbe essere una delle ultime volte che camminano fianco a fianco in questa maniera. Entrambi lo sanno, entrambi lo hanno scelto di propria iniziativa, ma non si può negare che il pensiero metta una certa apprensione.

    E così camminano, attraversano l’arena del tempio. Qui i cavalieri di Atena e gli addestrandi si allenano duramente per imparare il Cosmo, per apprenderne i segreti più reconditi, ogni giorno un po’ di più. Qui si sono addestrati anche loro dei Reclamatori, sin dal momento in cui hanno prestato giuramento di restituire, un giorno forse ancora distante, la terra in mano all’umanità.

    Irwyn aveva prestato giuramento senza fiatare, senza esitare, così come senza esitare aveva preso in mano la lancia, la spada, anche la pistola, usato le mani nude per farsi strada tra le fila delle reclute. Lucas era stato un filo meno entusiasta, ma si era unito comunque al gruppo, aveva prestato le sue doti, tra cui una mira ammirevole… fino quando non ne sei l’obiettivo.

    Oggi l’Arena non ospita addestrandi però. Solo uno sparuto gruppo di persone, due donne e un uomo intenti a chiacchierare; sembrano in attesa di qualcosa, qualcuno.

    La giovane donna dai lunghi capelli rosa, lievemente mossi e raccolti in una coda bassa, solleva lo sguardo verso di loro, e i suoi occhi color non-ti-scordar-di-me brillano nella luce del mezzogiorno in arrivo.

    “Finalmente!” Esclama, e subito si lancia verso i due ragazzi, cingendo la loro vita in un abbraccio inaspettatamente possente. “Ma dove eravate finiti?! Ancora un po’ e vi davamo per M.I.A! E tu, che ci fai con questi capelli bagnati! Ti farai venire un accidente!”

    Irwyn sorride, anche se le costole minacciano di cedere sotto la presa della ragazza, tanto materna quanto forte fisicamente. Teme fortemente per una eventuale, futura progenie.

    “E dai Sylvia, lo sai che non mi ammalo mai.” E Sylvia, da brava mamma, è subito li a fare scongiuri e ad avvolgere il proprio scialle cremisi intorno al collo di Irwyn, borbottando qualcosa che somiglia inquietantemente a giovani d’oggi, sempre a fare gli sciamannati, bah. Come se non avesse due anni meno di Irwyn. “Piuttosto, Cyra, ci sono novità?”

    L’altra donna, alta e dalla pelle bronzea, con due occhi azzurrissimi, quasi glaciali, che risaltano come schegge di vetro, e con una chioma scura e indomita che ricade sulla schiena, fa le spallucce. “Niente di niente. Siamo solo qui ad aspettare che ci venga a prendere chi di dovere.”

    “E non sappiamo nemmeno che faccia hanno, questi fantomatici ‘chi di dovere’?”

    “Beh, non è che i Saint ci debbano dire qualcosa, no?” Lucas commenta, lievemente sardonico. “Se loro ci dicono di saltare, noi dobbiamo solo chiedere quanto in alto.”

    “Piantala, Lucas.” Sylvia si riaggiusta una ciocca di capelli dietro l’orecchio e incrocia le braccia. Un’abitudine che ha sempre avuto sin da bambina. “I Saint sono saggi e giusti. Tu puoi benissimo aspettare un attimo.”

    ”Un attimo si, ma che sia uno e non un milione!”

    Irwyn e Cyra si scambiano uno sguardo che vale mille parole. Stanno accuratamente zitti, muti, non un fiato tra i due litiganti, la tenera sognatrice idealista contro il cinico realista disilluso.

    Mentre i due si scannano sul significato più recondito della vita, Irwyn nella sua testa sta già pianificando le future nozze.

    “Aspetta un attimo, dov’è finito Sam?”

    Cyra ha giusto giusto il tempo per finire la frase; un istante dopo, si sente un rumore dall’altra parte dell’arena, il rumore inconfondibile di acqua scrosciante. I quattro ragazzi si voltano di scatto, pronti a combattere se ce ne fosse bisogno, solo per ritrovarsi a fissare Samuel, che aveva approfittato della confusione per defilarsi e andare al pozzo, tirare su un secchio colmo d’acqua e… darselo addosso?

    Nel silenzio più totale, Sam sorride, quel suo sorriso bello, a trentadue denti, sempre brillante… a volte troppo brillante.

    “Ehi, Sylvia!” Butta il secchio in terra con un gran fragore. “Anche io ho i capelli bagnati! Mi presti la tua giacca?”

    Povero Sam. Non è cattivo, non è nemmeno così stupido, è solo che, quando Sylvia è nei dintorni, rimbambisce del tutto e non c’è verso che faccia un ragionamento sensato dall’inizio alla fine.

    “Beh,” Sylvia trova finalmente il coraggio di rompere il silenzio devastante. “Almeno è carino, no?”

    Forse, forse no. Irwyn non lo saprà mai, perchè proprio in quel momento due persone fanno capolino apparentemente dal nulla, una ragazza bassa dai capelli corti e fiammeggianti, e una donna più alta, con una maschera d’argento, e capelli il colore del cielo che si sveglia all’alba…

    Il cuore di Irwyn sprofonda, poi si libra, galoppa, scalcia contro le costole.

    Senza pensare, si fa avanti, avanza di un passo verso le nuove venute.

    Tu.






    - Energia: Bianca
    - Status Fisico: Affaticato nella prima parte del post, fresco come una rosa nella seconda.
    - Status Mentale: Terrorizzato prima, più sereno poi, ma sempre con una punta di inquietudine. Vedere una certa persona lo scompensa un po'
    - Cloth: //
    - Abilità: //
    - Tecniche: //
    - Riassunto Azioni: Si squarta la mano, per poco non affoga malissimo e dopo il flash forward si va a fare una nuotata per calmare i nervi. L'ansia da prestazione è una brutta bestia, specie se ci puoi rimanere secco nella prestazione.





     
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    Gli occhi vitrei della maschera si posano su ciascuno di voi, mentre la ragazzina dai capelli come fiamme con una lancia in mano vi osserva per qualche istante, prima di piantare la lancia nel terreno e materializzarsi sull'altra estremità, in piedi.

    Così sono più alta di voi un tono di voce allegro, fanciullesco come l'età che pare avere.

    Improvvisamente alza l'indice della mancina al cielo, come se si fosse ricordata di qualcosa di importante.

    Ah...
    Sono Gaëla Roux della sesta squadra del III contingente dei Reclamatori, mentre la signora al mio fianco


    Indica la donna (? - giovane ragazza?) dai capelli viola con la maschera, che è rimasta in silenzio a guardarvi, a braccia conserte all'altezza del ventre.

    Lei è il Capitano Sirvart Sarkisyan, ma potete chiamarla Capitano oppure "signora" un pizzico di malcelato orgoglio sempre con quel tocco fanciullesco.

    Finalmente si muove la mascherata, rilascia le braccia e pone il piede sinistro davanti il destro.

    Vedi il fuoco del suo cosmo danzare sulla sua pelle, ed in un attimo tra lei e voi si apre una distorsione nella realtà, come uno specchio di argento vivo, sebbene la superficie liquida di quella frattura lasci intravedere un paesaggio simile a quello dove siete, sebbene quasi sfocato.

    Abbiamo una missione da compiere e voi verrete con noi due. La prima volta nella dimensione spettrale può essere fuorviante quindi restate vicini a me o a Gaëla. Non sembra ma ha una padronanza spirituale notevole.

    La ragazzina con una capriola atterra da sopra la lancia, arma che recupera con un colpo del tacco dello stivale che, provocata una rotazione dell'asse dell'arma, viene intercettata dalla sua piccola mano destra.

    Vado avanti io, seguitemi! enfatizzando l'ultima parola con un movimento circolare del braccio sinistro, fino ad indicare lo specchio liquido.

    La vedete toccare la superficie di quel disco argentato che di riflesso sembra essere permeabile, osservate la rossina mentre lo attraversa con disinvoltura e ne osservate una forma sbiadita che vi incita a seguirla con la mano.

    Quando tutti entrate vedete anche il Capitano seguirvi per poi richiudere il passaggio dietro di se.

    La dimensione spettrale è qualcosa di nuovo per voi. Avete studiato la cosmologia del sistema e l'importanza delle singole dimensioni ma mani prima d'ora vi eravate entrati.

    Una prima volta per tutto.

    Se vi è un qualcosa che vi lascia particolarmente strabiliati è la velocità con cui vi state muovendo nella dimensione, come se fosse piegata su se stessa e voi stesse nuotando tra le sue onde.

    Stiamo per arrivare reclute, state attenti appena uscite. Gaëla parla con tono stavolta vagamente eccitato, come se stesse pregustando il momento, mentre la sua lingua esce dalle labbra, serrandosi sul lato destro della bocca.

    CITAZIONE
    MASTER CORNER:

    Volevi incontrarla da 10 anni, ne hai l'occasione.
    Quando ti passa vicino ti pare di sentirla sospirare ma non puoi dirlo con certezza per via della maschera.

    Provi un'esperienza straniante, quella della dimensione spettrale (cosa non da tutti o quantomeno non da tutti i giorni) Mentre viaggiate ti rendi conto, vagamente della direzione che state seguendo e, all'uscita dalla dimensione, capisci che ti trovi al villaggio da cui eri partito con il peschereccio. Solo che si sentono delle urla.
     
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    Irwyn ascolta la ragazzina, dal carattere tanto fiammeggiante quanto la sua chioma, senza osare proferire parola. Dall’autorevolezza casual e simpatica con cui lei si pone, dalla vivace fluidità dei movimenti, dal fatto che si è letteralmente smaterializzata per poi riapparire subito dopo in perfetto equilibrio sull’estremità smussa della lancia conficcata nel terreno - il tutto solo per mostrarsi più alta di tutti loro, nonchè anni luce più abile - è più che palese per tutti i presenti che, nonostante la giovanissima età e la personalità pepata, Gaëla è una combattente esperta, capace, una che sa perfettamente quello che fa e non lo nasconde. O meglio, non ha la minima intenzione di nasconderlo.

    Ciononostante, l’attenzione di Irwyn non può che essere assorbita in toto dall’altra figura, tanto fredda e chiusa quanto la sua compagna è calda e aperta, dal volto celato e reso ulteriormente più inespressivo dal contrasto con la mimica spiccata di Gaëla.

    Capitano Sirvart Sarkisyan.

    È strano. Dopo così tanto tempo, dopo così tante domande e mancate risposte, adesso avere finalmente un nome da attribuire a quella maschera tra le onde, a quel bagliore argentato tra i flutti, è tanto strano.

    Sirvart Sarkisyan. Irwyn gira e rigira quel nome inusuale sulla lingua come un bambino posto di fronte a una caramella dal sapore insolito e intricato, e più lo fa rotolare nella sua testa più si fa pesante e denso, e all’aroma dolce della soddisfazione si mescola il ferro e rame di domande che hanno sanguinato troppo a lungo.

    Chi sei?

    Come hai fatto?

    Perchè.

    Ma lei è Capitano, o ancora meglio Signora - e non è forse deliziosamente ironico per una maschera ammantarsi nel nome di un’altra maschera, per una rosa portare il velo del crisantemo - e lui è l’ultimo delle reclute, fresco fresco di selezione, e in fin dei conti tutte le sue domande esistenziali sono poco più di un granello di sale sulle labbra di colui a cui non è concesso chiedere di più del dovuto.

    Quindi tace, ancora una volta ingoia quel bolo di sangue raggrumato e infetto, sangue e acqua salata, e semplicemente si drizza sull’attenti, porta la mano alla fronte in guisa di saluto, china il capo in segno di rispetto.

    “Irwyn Murphy, nuova recluta del terzo reggimento. Questi sono i miei compagni Lukas Ariti, Samuel De Jong, Sylvia Beaumont e Cyra Mahan. È un onore per noi essere al vostro servizio.”

    Guarda principalmente Gaëla mentre parla, o almeno si impegna a fare ciò - anche lei è un suo superiore, dopotutto - ma la sua attenzione continua a fluttuare, a saettare tra le due donne, incapace di fermarsi stabilmente sulla rossa mentre l’altra si impone con i suoi silenzi di acciaio.

    È tutto troppo angosciosamente familiare, il dolore sordo e diffuso di qualcosa che viene a mancare quando più ce n’è bisogno, il tepore guizzante di un tizzone in punto di morte che viene provocato da un attizzatoio senza pietà, da un ferro duro e crudele che si infila in quello spiraglio, si rigira nella ferita, la espone all’aria aperta ancora una volta, appicca nuova vita a quelle ceneri stanche. I ricordi di quei momenti orribili inondano la mente ancora una volta, il freddo delle acque gelide scorre nelle vene, si annida alla base dei polmoni, congela in un macigno che sembra trascinare Irwyn giù ancora una volta, sempre più giù…

    Dopo un momento di quiete, densa e inossidabile mentre percola e si stende in ogni piccolo anfratto prima di solidificare, la Signora d’argento finalmente si muove, scioglie le bianche braccia prima conserte, fa un singolo passo verso di loro.

    E che tuffo al cuore sente Irwyn mentre l’aria si infiamma di un bagliore argenteo di nuovo, una dura lama frigida per l’occhio ferito, eppure allo stesso tempo anche una morbida coperta calda per la cute intrisa. Il cosmo della donna avvampa di un candore lancinante, sembra trafiggere a morte lo spazio stesso, il quale si accascia, si sfalda in mille pieghe scintillanti mentre la ferita si allarga, il tempo sanguina, e, sul fondo di quel panneggio finemente increspato di mare d’estate, il paesaggio sembra accartocciarsi; le ormai troppo familiari colline di Rodorio si sfumano senza sparire, come una goccia d’acqua accidentalmente versata su un acquerello appena asciutto dilava il colore ma non cancella le sagome.

    Irwyn lo riconosce subito, quel calore. Quella cortina d’argento che si era dipanata tra i flutti nerissimi che mai hanno conosciuto la carezza del sole. Per troppo tempo si era chiesto cosa fosse, perché gli fosse apparsa davanti proprio in quel momento, quando era poco più di un ragazzino a un paio di respiri dall’oblio; perchè lo avesse sottratto al buio, solo per farlo oscurare in un mondo di luce.

    Quando Irwyn ne aveva parlato con i suoi compagni, dopo tanti anni che ci rimuginava sopra per conto suo, Lukas gli aveva detto senza tanti giri di parole che aveva avuto un’allucinazione, che la mancanza di ossigeno l’aveva fatto immaginare tutto ciò, e che la sua fortuna (“Sfacciatissima, come al tuo solito.”) aveva semplicemente fatto sì che la marea lo sospingesse a riva con il relitto, dove la sua taciturna, eburnea samaritana l’aveva raccattato (“Come la spazzatura che sei”).

    D’altro canto, Sam aveva offerto una spiegazione molto più fatalista.

    (“Athena.” Sam aveva detto sotto voce, il volto contorto in una espressione seria e contrita che poco appare opportuno su di lui, solitamente così aperto e gioviale. “L’occhio celeste della Pallade si è posato su di te e, nel momento in cui ne hai davvero avuto bisogno, ha mandato Nike in tuo soccorso. Le sue ali ti hanno guidato nei meandri dello spazio-tempo, facendoti giungere da chi ti avrebbe condotto tra le Sue bianche braccia. Era il tuo destino.”

    “Ci stai vedendo cose che non esistono. La donna mascherata era probabilmente un Saint, quello te lo concedo, ma da li ad andare a scomodare Nike? Più probabile che sia stato portato a riva e lei semplicemente stesse passando di là. Nessun bisogno di andare a scocciare gli Dei.”

    Doveva essere una battuta, e infatti Lukas aveva sogghignato tra sé e sé in tutta risposta.

    Non Sam, però. Non Samuel, che nemmeno aveva sorriso, gli occhi verdi stranamente affilati sotto la frangia di capelli di un biondo così pallido da sembrare argento.

    ”Mah. Se lo dici tu.”)

    Ora, però, quello squarcio argenteo si apre ancora una volta di fronte ai suoi occhi, e Irwyn sente il fiato mozzarglisi in gola. Perchè alla fine era davvero come diceva Sam, non era stato solo un caso fortuito, un subitaneo moto di pietà di una sconosciuta dal viso d’acciaio. E ciò non fa altro che buttare vento e petrolio su quelle domande divoranti che per tanto tempo l’hanno assillato; come, quando, chi, perchè.

    E intanto la dimensione spettrale - perchè l’ha riconosciuta per quello che è, questa volta - danza leggiadra di fronte ai loro occhi strabuzzati. Una delle tante, innumerevoli dimensioni spettrali a cui i cavalieri dotati di poteri spirituali sono in grado di accedere, e di attraversare a loro piacimento. Un privilegio importante, aveva detto il loro istruttore durante l’addestramento per entrare nei Reclamatori, proprio di chi possedeva una spiritualità fuori dal comune. Non era stato facile studiare le innumerevoli sfaccettature della realtà, la fine e complessa trama in cui essa è intessuta e in cui si ripiega un numero infinito di volte nel momento in cui si oltrepassa quell’orizzonte degli eventi, ma era stato interessante; grazie al cielo Sam aveva dimostrato una certa attitudine naturale alla materia, e si era prestato a fare da tutor non ufficiale ai quattro amici.

    Però adesso non è più una serie di schemi complessi dai nomi arzigogolati fine a se stessa. Adesso la dimensione spettrale spalanca le sue fauci cristalline proprio di fronte a lui, il più concreta possibile per un’entità tanto intangibile, e la tentazione di toccare con mano quel piano che si mantiene in perfetto en pointe sul punto triplo dell’esistenza è forte, fortissima.

    Ma il ragazzo si trattiene. E meno male, perchè finalmente il Capitano parla - un altro tuffo al cuore, quella voce - e prima che l’intero significato delle sue parole possa davvero andare a fondo nella consapevolezza di tutti gli astanti, Gaëla salta giù dal suo trespolo, facendo mostra delle sue doti ginniche. Un rapido colpo di tacco e la lancia volteggia leggera nell’aria per un secondo, solo per atterrare con grazia impeccabile nel palmo della ragazza.

    “Vado avanti io,” canticchia lei, perfettamente a suo agio mentre con la mano libera indica quella strana fenditura iridescente. “Seguitemi!”

    E così dicendo, senza alcun indugio, Gaëla oltrepassa quella soglia, il suo passo leggero ma fermo.

    Irwyn sbarra gli occhi, e anche i suoi compagni vocalizzano il loro stupore quando la figura minuta della ragazzina si fa sfocata, le sue linee tutte dritte si increspano, ondeggiano, la sua intera silhouette fiammeggia mentre si gira e fa loro cenno di seguirla.

    I cinque si guardano per un lungo, interminabile istante, e Irwyn può vedere i dubbi negli occhi duri di Cyra, la trepidazione nella curva morbida della bocca di Sylvia che si increspa e avvampa mentre si mordicchia il labbro inferiore, il sospetto e l’ansia nell’angolo della mandibola di Lukas, dura e serrata. L’unico moderatamente composto è Sam, e anche lui appare lievemente più pallido del solito.

    Irwyn non si stupisce del momento di esitazione, l’istruttore era stato molto chiaro; la dimensione spettrale è tanto generosa con chi la sa cavalcare tanto quanto è crudele verso coloro che osano toccarla laddove non dovrebbero. Nessuno che abbia violato i confini della dimensione spettrale senza avere padroneggiato appieno i poteri dello spirito aveva mai fatto ritorno, e alcune leggende narrano di anime sperdute fra i mondi, vaganti per sempre nel limbo orripilante che serpeggia tra le dimensioni. Altre leggende riferiscono che l’anima di chi vi si è perso viene semplicemente schiantata, dissolta in una esplosione di nulla sotto la pressione immensa delle dimensioni che girano una intorno all’altra. In entrambe le versioni, è più che evidente che la semplice morte sarebbe mille volte preferibile a un simile fato.

    Non è esattamente la più rosea e invitante delle prospettive. Soprattutto per cinque reclute che non hanno l’ombra di poteri spirituali.

    E così per un lungo momento rimangono immobili di fronte a quello specchio dove il reale si liquefa in una miriade illusioni, dove il concreto si scioglie e l’effimero si congela, bloccati tra quel velo e la Signora, la quale nel frattempo si muove e si porta alle spalle del gruppetto, incastrandolo di fatto tra due fuochi, uno cremisi e scoppiettante, l’altro quieto e accecante.

    Chissà se è solo suggestione, se l’ha solo sognato quel suono, quel sospiro che pizzica l’orecchio di Irwyn mentre lei passa oltre, mentre interi anni luce fittamente intrecciati l’uno sull’altro sembrano oscillare rapidi in quei dieci centimetri che separano la sua spalla da quella di lei.

    Lui rivolge uno sguardo dietro a sè, verso quella figura che è nebbia e faro allo stesso tempo, ma lei non dice niente, e la sua curiosità sfrigola in una nube di vapore ardente mentre si infrange su quell’inespugnabile scudo d’argento.

    L’immagine di un ragazzino incerto fende la mente di Irwyn, un ragazzino con una lama arrugginita nel pugno tremante e senza il coraggio di usarla, anche mentre un ragazzo veniva fatto a pezzi a pochi metri da lui. Il ricordo di un corpo ancora caldo al tatto, rigido e insanguinato mentre dita codarde e intorpidite rovistano tra le tasche, si infilano tra i vestiti.

    Mai più.

    Così si era detto.

    Eppure, con tutti gli anni passati a imparare a impugnare un’arma prima e il proprio cuore poi, Irwyn è ancora qui, galleggia a metà, senza avere il coraggio di scendere in profondità né di tornare a superficie. A corpo morto, gonfio e macero, deforme e ripugnante.

    Mai più, si era detto. E allora che così sia.

    Irwyn prende un respiro profondo, tanto profondo da fare quasi male mentre il diaframma spasma, i polmoni sembrano esplodere. L’ossigeno fresco sembra bruciare lungo la gola arida mentre si riversa nel petto senza controllo. Uno, un altro respiro, un terzo, e poi-

    E scatta in avanti.

    Dritto dritto dentro la fenditura, senza guardare indietro, intorno, sopra, sotto. Avanti, solo avanti, gli occhi puntati su quella fiamma danzante che è Gaëla e su nient’altro, nessun altro. Anche le esclamazioni dei suoi compagni a stento vengono registrate nel suo cervello mentre il suo volto varca quella soglia, poi il petto, poi il resto del corpo a seguire, a cascata.

    Ed è difficile trovare parole che descrivano appieno la sensazione, al di fuori di incredibile.

    Al primo impatto, la dimensione spettrale sembra contrarsi, ritirarsi dentro se stessa mentre Irwyn vi si approfonda, e nel ripiegarsi si fa più densa, l’ambiente circostante sfuma ancora di più, fino quasi a sparire in una nube di colori informi in cui è facile, troppo facile perdersi.

    Ma il ragazzo tiene fissa quell’immagine di Gaëla davanti a sé, lascia che quell’aura sfavillante si marchi a fuoco nelle retine, nell’anima, che quel calore si intrecci in un filo di seta cremisi da seguire fino alla fine dello spazio e del tempo. La realtà distorta si espande quando lui fa finalmente breccia nelle sue profondità, preme sulla pelle, si modella intorno a lui come una seconda pelle liquida e vischiosa mentre lui avanza, si insinua nelle pieghe degli abiti, nelle vie respiratorie; sguscia, fredda e impalpabile, al di sotto delle unghie quando lui sbraccia e scalcia per farsi strada in quell’acquitrino nebuloso.

    Non sa esattamente quanto tempo passa, o se ha ancora senso parlare di tempo in questo posto. Un secondo, un secolo, è difficile capire, farsi un’idea anche vaga del tempo trascorso - se trascorso - a nuotare in questo limbo. L’unica cosa di cui è almeno vagamente conscio è che quell’ultimo boccone d’aria è saldamente incastonato tra le fauci, spiaggiato sull’epiglottide che vi si aggrappa disperatamente per non affogare; un respiro che brucia ma non si estingue, mentre l’ambiente ondeggia intorno a Irwyn, mentre campagne e montagne e fiumi e mari circostanti sembrano fluire in un unico torrente in piena ogni volta che Irwyn si sospinge con le braccia e con le gambe, ogni volta che le sue mani si affondano in avanti, e squarci di paesaggi lontani si riversano negli spazi tra le sue dita.

    Campagne e montagne e fiumi e mari che stuzzicano qualcosa nella parte più recondita della mente di Irwyn, che sospirano melanconici a quei ricordi lontani ma ancora vivi, ancora sanguinanti.

    < Io questi posti li ho già visti.>

    Ma non ne può essere certo, non può fermarsi a controllare. Deve accontentarsi di quel sapore familiare di sale e freddo di acque troppo gelide per un ragazzo da tollerare, della brina che riposa pigra sulle brughiere brulle delle campagne del Nord, della rugiada che danza dolce su foglie e fili d’erba di selve troppo fitte e oscure per un ragazzino così giovane da esplorare, armato solo di un coltellaccio arrugginito.

    E proprio nel bel mezzo di questi pensieri, la voce di Gaëla risuona ancora una volta, allegra e scoppiettante, e Irwyn sobbalza. È come se la ragazza stesse parlando direttamente da dentro la sua mente, incredibilmente vicina e allo stesso tempo incommensurabilmente lontana, rendendola impossibile da localizzare. La dimensione spettrale gli sta friggendo completamente il senso dell’orientamento, tra le altre cose.

    Sta di fatto che la voce di Gaëla é l’unico avvertimento che gli viene concesso, e ne deve essere anche grato; pochi istanti dopo, l’intera realtà sembra contrarsi, schiudersi, uno squarcio d’alba incide brutalmente la delicata luce soffusa della dimensione spettrale. D’istinto Irwyn chiude gli occhi, ma è inutile, quel bagliore sorge imperterrito anche oltre le sue palpebre, il suo calore avvolge ogni spiraglio dell’esistenza, appicca nuove fiamme sulla sua pelle. Per un attimo, gli sembra di essere stato lanciato nel bel mezzo di un rogo, un rogo che arde caldo ma non brucia, e che invece si estende oltre fascine di fieno secco ai suoi piedi, divorando il resto del reale in un’unica vampata.

    E poi qualcosa cambia, lo spazio geme, si distorce in una smorfia di dolore, e Irwyn con lui, mentre il suo corpo si raggrinza e si strizza, le sue viscere si attorcigliano su se stesse, i suoi polmoni implodono e quell’ultimo respiro è infine perduto nel fuoco galoppante di un cuore imbizzarrito…

    I suoi piedi si posano su qualcosa di solido. Meravigliosamente solido.

    Come a comando, il suo corpo riprende forma, e l’aria fredda si infila a forza nel suo petto, espandendolo fino quasi a far male. Il respiro brucia dietro lo sterno, il cuore scalpita, e tutti i muscoli manifestano tutto il loro disappunto mentre le gambe di Irwyn collassano, le mani e le ginocchia urtano violentemente quella stessa superficie solida - terra. Stupenda nel suo essere concreta e reale - e il dolore è quasi un piacere, una benedizione che si stende come un velo pietoso su di lui, un promemoria che Irwyn ancora vive, ancora esiste, nel più vero senso del termine.

    Così ansima, si bea della sensazione dell’aria che scende nella trachea come un coltello sguainato. Non apre ancora gli occhi, si concede un momento per riprendersi. Il rumore di un corpo che urta contro la terra a pochi centimetri da sè con un gemito gli dice che anche Lukas è arrivato, ed è sconvolto quanto lui. Poi Sam, nettamente più aggraziato nel suo atterraggio, poi Sylvia e poi Cyra.

    Lentamente, apre gli occhi. Gli ci vuole un intero secondo per far sì che smettano di lacrimare.

    “State tutti-”

    Le parole appassiscono sulle labbra prima che possano sbocciare.

    Perchè riconosce questo posto, questa brezza, queste onde che si agitano indispettite contro il molo. Ma soprattutto riconosce questo odore, questo tanfo acre che si mescola e sopraffà la salsedine, l’orrendo lezzo di ferro liquido e caldo che si ossida all’aria aperta, che vira troppo presto da scarlatto vivo a mesto marrone.

    Se la dimensione spettrale ha tanto sgraziatamente catapultato Irwyn in avanti nello spazio, il fantasma della morte lo prende per la collottola e lo trascina indietro nel tempo.

    Irwyn scatta in piedi, lo shock psicofisico in cui l’aveva lasciato la dimensione spettrale ora è improvvisamente dimenticato. Il cuore palpita, ruggisce nel suo petto, tuona dentro le sue orecchie, e anche fuori, perchè ci sono urla, strilla, pianti, invocazioni d’aiuto, e quando Irwyn si gira e lancia un’occhiata ai suoi compagni può vedere il suo stesso sgomento fissarlo di rimando dai loro occhi; il suo stesso terrore specchiato in volti smarriti nei meandri di dolori lontani, dolori che scioccamente avevano creduto di poter dimenticare.

    È facile credere di essere fuori dalla tempesta, quando si è comodamente accolti tra le mura solide del porto. È facile crescere arroganti, comodamente piantati in quel senso di sicurezza, solo per essere falciati nuovamente dall’uragano che giace in agguato appena fuori dal golfo, un mietitore crudele che senza il minimo sforzo fa naufragare tutte le certezze di una esistenza benedetta dalla discrezione di un essere superiore.

    Le urla si intensificano, riecheggiano. Il sangue si fa freddo nelle vene, eppure ribolle alla punta del cuore. L’orrore si avvolge intorno al petto con le sue spire di spine, stringe, schiaccia, stritola.

    Mai più. Mai. Più.

    Non succederà di nuovo. Non qui, dove ha fatto una promessa, dove per lui tutto è iniziato… e si rifiuta di farlo finire.

    Una strana sensazione lo pungola alla nuca, come un tocco delicato e impalpabile, unghie affilate come lame e gentili come piume che sfiorano appena la base del cranio. È osservato, intensamente. Irwyn sa esattamente da chi, e si gira, cerca a sua volta quello sguardo d’argento che è sia ancora sia macigno.

    “Capitano, chiedo il permesso di intervenire.”

    Ma prima che il Capitano possa rispondere, Irwyn scatta in avanti, sguaina quel piccolo, fedele gladio al suo fianco che lo ha seguito in tanti addestramenti e che mai ha assaggiato sangue, e si lancia nel bel mezzo dello scempio orripilante che è diventato Rosslare Harbour.






    - Energia: Bianca
    - Status Fisico: perfetto
    - Status Mentale: scombussolato dal viaggio nella dimensione spettrale, sconvolto dalla scena che si palesa davanti ai suoi occhi
    - Cloth: //
    - Abilità: //
    - Tecniche: //
    - Riassunto Azioni: ancora un po' preso in contropiede dalla comparsa del Capitano, riflette sulle scelte e circostanze che l'hanno condotto fino a qui, mette in discussione il proprio libero arbitrio contro il volere degli Dei. Viaggia nella dimensione spettrale sotto la guida di Gaëla e il Capitano, per poi lanciarsi a capofitto nella mischia a Rosslare Harbour senza aspettare il permesso ufficiale.






    Mi scuso per il ritardo, IRL mi ha preso a sprangate in faccia in questi giorni e da malaticcia non avevo molta energia per scrivere ç.ç
     
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    Senti il livello di adrenalina che sale, il cuore che pompa il sangue a ritmo sempre più forte.
    Il respiro si fa più rarefatto mano a mano che continui la tua corsa a perdifiato.

    Corri a perdifiato incespicando forse un paio di volte e saltando de plano alcuni ruderi adagiati sul terreno.

    Mano a mano che ti avvicini la situazione si fa via via più chiara, seppure la corsa e la conseguente diminuzione della visione periferica non ti permetta una didascalica raccolta delle informazioni di base.


    Vi è un acre odore di fumo catramoso, e le volute si inerpicano nell'aria in diverse colonne dal terreno, puoi vedere quelli che sembrano viticci e rami ardere, anche se non vi sono alberi di vite li intorno.

    Percepisci rumore di scontro da dentro il villaggio, con ordini abbaiati dalla stessa voce boriosa che ti accolse in seconda battuta.

    Amhalgaidh Ó Bradáin sembra essere ancora vivo, con in mano un arpione ed un pezzo di rete formato da catene con punte ad ogni nodo.

    Vedi lui, e poi vedi il resto.

    Vi sono bestie lignee simili a canidi che stanno dilaniando le carni di un povero cristo, reso ormai irriconoscibile, sembra quasi uno dei giocatori di carte di 10 anni fa.

    Li vicino una figura lignea umanoide sta felicemente attaccando delle interiora umane sui muri e tra i viottoli del villaggio come festoni in un giorno di festa.

    L'odore ferroso del sangue e quello di cadaveri arsi ti raggiunge come un pugno nello stomaco.

    Amhlagaidh pare ferito ma per nulla intenzionato ad arrendersi mentre sembra affrontare una qualcosa di... inaspettato.

    Punta il suo arpione verso una bambina bionda, che sta tranquillamente seduta a terra come se l'inferno intorno a lei non la tangesse.

    Il capitano di quella ciurma è posto a difesa di della porta dalla quale l'avevi uscire la prima volta, dal cui interno si odono urla ed incitamenti fino, infine, a primo vagito di un neonato.

    Pare che nessuno si sia accorto di te, per il momento.

    CITAZIONE
    Master Corner
    jpgIl mostro umanoide ed i canidi di legno


    jpgLa bambina

    Come vedi ci sono fuoco, fumo, alcuni morti in maniera orrenda, il capitano che hai conosciuto e la situazione che ti si para davanti.

    a te la scelta di cosa fare e come di riflesso influenzare quello che accadrà.

    In caso vuoi attaccare qualcosa o qualcuno ti invito a rileggere questi link: Combat1 - Combat2 - Combat3

    Al momento sei energia bianca ma hai il tuo gladio e l'addestramento di 10 anni al combattimento.

    Per il momento non utilizzare i tuoi compagni se vuoi attaccare, vediamo come primo approccio come ti comporti in combattimento.
    Ricordati sempre di descrivere l'azione l'asciando al condizionale l'esito dell'eventuale attacco.

    Se hai dubbi sai come contattarmi :)
     
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