Flowing from South

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    Flowing from South




    Lo senti, attraverso tutti gli elementi che compongono la tua sovranità.
    Senti la presenza strisciante ammorbare la terra, il fetore appesantire l'aria, il sudiciume avvelenare l'acqua...
    Lo riconosci. Draka lo odia. Amaterasu nemmeno lo concepisce.

    L'immondo nemico profana ancora una volta il dominio di G.E.A., il tuo dominio.
    Cerchi di raggiungere il tuo antico alleato per sapere, per comprendere quale sia la ragione di un tale cambiamento improvviso. Una simile minaccia non può passare totalmente inosservata e poi palesarsi in un tale scempio da un istante all'altro.

    Ma Amacunu non risponde. Il Rio è silenzioso, placido perfino nel suo immenso scorrere.
    Proprio la tua connessione alla Rete di Agartha, però, ti permettere di cogliere un particolare.

    una ferita

    dolorosa

    putrida

    vomitevole


    Più ti protendi verso di essa e più la sua sola esistenza ti SPORCA al pari di melma che ribolle.
    Perché così lontano? Perché così estraneo a ogni tua previsione?

    Poi lo capisci. Un centro di potere. Un altro.
    La perversione della natura originale dell'essere l'ha portato a raggiungere un altro obiettivo, un'altra vittima.


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    La neve colpisce il tuo viso nella sua corsa tra le correnti. Il vento sferza gelido l'opera dell'uomo, fredda e priva di alcuna vita. Nulla che possa impressionarti.
    Non è per quello che sei qui.

    Hai inseguito la puzza di carogna per tutta la Terra e, ora che sei qui, sembra che la traccia sia svanita improvvisamente.
    Eppure il senso di perfetta pace dura per pochissimi istanti.

    Di secondo in secondo ti senti più pesante. Ogni passo affonda sempre più nella pietra levigata, crepandola.
    Il suolo si spacca in decine di punti sotto ai tuoi piedi.
    E come uno specchio, si frantuma in miliardi di frammenti grigi, bianchi, neri e azzurri.

    e sotto di esso

    ROSSO



    La carne pulsa fetida in quella realtà nascosta appena sotto il velo. Una delle infinite interazioni del Multiverso nella quale un lago si apre in un crepaccio ai piedi di Hallgrímskirkja. Un lago di sangue. Fresco e marcio, carminio e nero e ogni altra variazione possibile di colore e consistenza.

    Da esso si origina una corrente. Un nuovo fiume. Il nuovo Rio di sangue scorre verso Nord, tagliando in due parti l'Islanda.

    Ovunque creature deformi, a malapena umane, strisciano abbeverandosi di quei fluidi. Le labbra maciullate. I denti consunti e spaccati. Le mandibole dislocate. I ventri rigonfi.
    Mangiano. Si divorano l'un l'altro presi da una frenesia nauseante. Sentono il bisogno di smembrare, di ingoiare. Divorano la loro stessa carne.
    Non sai contarli, mentre si trascinano verso di te.

    E lui. Lui è sulla vetta di quel pinnacolo artificiale, ebbro di perversione. Quasi irriconoscibile in una forma tanto mostruosa da stridere coi concetti di materia e forma. Urla. E ride, riempiendosi i polmoni di aria ghiacciata e risputandola sotto forma di plasma infuocato.

    Ti vede.

    Ghigna.

    I disegni intricati che deturpano la facciata della chiesa emanano un bagliore, come se stessero bruciando.
    Il lago di sangue sussulta e si apre.

    Amacunu è crocifisso a un ammasso ributtante di arti e corpi amalgamati in una montagna viscida e putrescente, inchiodato alla carne morta con lance che risplendono come rubini incandescenti.
    Il petto aperto. La massa impossibile di sangue che sgorga direttamente dalla spaventosa ferita.

    Respira a fatica. Non sai come sia possibile.
    Il battito del suo cuore si affievolisce ogni istante di più. Sai che quando si fermerà, ogni cosa verrà a compimento.

    Il rituale è quasi concluso.











    Note Master:

    Bien, spero di averti dato abbastanza spunti.
    Huitzilopochtli è tornato. A quanto pare ha catturato Amacunu e l'ha portato in una dimensione del tutto simile alla nostra, da cui gli è più facile attuare il suo piano. Sfrutta l'Islanda come nuovo nexus come aveva cercato di fare al Nevado Mismi, ma stavolta sta usando l'essenza stessa di GEA attraverso Amacunu per dare sostanza a un vero e proprio Rio di sangue sacrificale, versato da tutte le creature che sono cadute sotto la sua influenza cannibalizzandosi a vicenda.
    Il cambio di aspetto l'ho pensato in relazione ai Caduti. Come anticipato, eventuali antefatti e scopi del nostro Huitz li lascio a te.
    Have fun.


     
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    GHETTO EBRAICODurante l'occupazione nazista



    Guardavano il cadavere dell'ufficiale nazista. I respiri tesi. Mani strette. Il coltello ancora nel petto. Poteva un essere umano avere tanto sangue in corpo? Colava dalla ferita macchiando il pavimento...un lago che continuava ad espandersi. Alcuni fecero dei passi indietro perché ne avevano paura e ne erano schifati.
    Il terrore era dentro i loro occhi e la loro anima.
    E continuavano a guardare quel cadavere. E lui.
    Un ragazzo semplice. Aveva le mani macchiate di sangue, il respiro corto e gli occhi impazziti. Il respiro corto, parole sconnesse.

    «Non volevo...io...è stato un attimo!
    Dio! Cosa ho fatto?! No..no..no...no...»


    cadde in ginocchio. Tremava.
    Uccidere un uomo andava contro i suoi principi morali e religiosi. Eppure come poteva rimanere un uomo fermo nella sua etica quando vi era tale pazzia ed orrore intorno a lui?
    I morsi della fame. I soprusi. Le violenze. Gli stupri. Un uomo per difendere sua figlia lo avevano costretto a vedere, per poi spaccarli la testa a calci e manganellate in testa che lo ridussero in una frattaglia. Il cervello e pezzi di cranio sparsi per terra, le risa, il dolore dell'anima mischiato a quello fisico.
    Il potere. Fare tutto questo. Erano già venuti altre volte. E altre volte avevano dovuto subire. Piacere e ossessione. Fanatismo e il peggiore schifo dell'animo umano.
    Ormai erano solo pezzi di carne e nulla di più. Carne da macello senza dignità, senza diritti, il fatto che respirassero era solo magnanimità.
    Eppure oggi non fu così. Non poteva voltare la testa dall'altra parte. Nascondere i piccoli, cercare di dargli forza e speranza quando non ne aveva più nemmeno per se stesso.
    Aveva dovuto seppellire sua figlia di 3 anni perché mancava pure il pane. Quello che rimaneva era pieno di vermi.
    Vermi...gli stessi che avrebbero divorato quel bastardo.
    Uno sparo.
    La finestra. La corsa. La paura. Tende spostate piano con mani che tremavano, con l'agitazione, il sudore, la bocca senza saliva e le labbra secche. Era difficile anche parlare.

    «Nulla...era uno sparo lontano non c'è nessuno...»

    «E mai ce ne sarà, sbarazziamoci del cadavere. Nessuno lo verrà mai a sapere.»

    Leo aveva parlato con un fiume di parole dette di forza. Impeto. Era quello che stava cercando di tenere tutti loro appesi ad un filo che si stava spezzando ad ogni secondo sempre di più. Ma nessuno aveva sentito nulla. E se avevano sentito non avrebbero detto nulla.
    Quanta violenza c'era? Quanta ne vedevano anche per strada? E quante volte girarono dall'altra parte la testa, o imboccarono una strada adiacente solo per mettere a tacere la loro anima e la paura?
    Oggi era uguale.
    Un bastardo di ufficiale tedesco era morto.
    Dio ne sarebbe stato fiero.
    Loro erano vivi.
    Anita, con la gonna strappata, il seno di fuori, scossa e tremante era salva. Cosa importava della vita di quel bastardo? E cosa importava ora della fame?
    Eppure si sentì sazio. Strana, inquietante, magnifica, sensazione.

    «Aiutatemi a nasconderlo. Poi lo getteremo nel fiume e dimenticheremo andando avanti.»

    Una mano si alzò.

    «Tu credi? Io non la farei così facile. Il fiume riporta a galla sempre i suoi segreti.»

    «Legheremo al cadavere qualche grossa pietra così resterà sul fondo, ad ingozzare le pance dei pesci, Jurgen.»

    «E alle nostre non pensi? Secondo te quanto resisteremo ancora? I bambini sono allo stremo e ne abbiamo già seppelliti troppi. Ieri la figlia di Britta la chiamava e lei non si alzava.
    Hai capito? Cazzo hai capito?! Era morta e la figlia le diceva che aveva fame. Ora sai che fine ha fatto quella bambina?»


    Alcuni non volevano pensarci. Ma da qualche tempo quella bimba non c'era più.

    «Non lo dite, non lo volete nemmeno pensare ma lo sapete. E cosa succederà ai nostri quando saremo i prossimi? Questo è il loro campo giochi e tu cerchi di sopravvivere secondo regole che non esistono più.
    Non qui...»


    I respiri intensi ruppero il silenzio. Un cigolio sulle scale. Respiri mozzati in gola. Passi. Salivano.

    «Tu hai fame...noi abbiamo fame...»

    Si guardarono. Tutti. Tutti stavano capendo. E vi era disgusto.

    «Stai dicendo di MANGIARCI un uomo?! E come mi presenterò a Dio con questo delitto nell'anima? Già vedere un uomo morto, già non dargli una sepoltura per quanto sia stato un bastardo, mi ripugna. Ma posso accettarlo per la sopravvivenza di...»

    «SOPRAVVIVENZA! Lui l'ha ammazzato per difesa e per sopravvivere. Tu lo stai gettando nel fiume sempre per questa sopravvivenza. Qui siamo animali, cazzo! E io non voglio morire1 Non voglio! Non voglio!
    E quindi non m'interessa di quello che dici. C'è Caleb che faceva il macellaio forse...»


    «MA SEI PAZZO!»

    «Forse ha ragione, sai? »

    «SIETE TUTTI IMPAZZITI? La bibbia? Dio?
    Solo il diavolo farebbe questo. Pazzi! Pazzi! Non farò una cosa del genere.
    MAI!»


    «Tu no, ma io si! E anche loro. Io voglio sopravvivere e Dio capirà. E se non capirà allora non è così grande come pensavamo.
    Ma io farò di tutto per i miei bimbi. Ho perso mia moglie non perderò anche loro. Sono magri...sono stanchi sempre. Piangono per i dolori della fame...cazzo! Cazzo! Cazzo! Lo vuoi capire?! Sono un diavolo?! Si e non m'importa. Io sopravviverò e con me le mie figlie. O t'ammazzo se ti metti in mezzo...»


    «E ci sarebbe più carne...»

    Rispose un altra. Persino chi aveva ammazzato il bastardo si rialzò. Sotto un peso indicibile. Si avvicinò la cadavere, prendendo il coltello e strappandolo dal petto. Un rumore sordo. Carne tagliata. Sangue sulla lama. Gocciolava dalla lama macchiando il pavimento, scandendo la follia e la dissoluzione.
    Erano animali per sopravvivenza. Mangiare un altro uomo. Cibarsi di lui.


    «Almeno sarà utile...ha usato i corpi delle nostre donne, dei nostri bambini a suo uso ed ora noi useremo il suo. Lo mangeremo e sopravvivremo.
    Si...io ci sto...non ci sarebbe, come dice Jurgen, il problema del nascondere il cadavere. Per i vestiti li getteremo nel vecchio forno. La pistola potremmo nasconderla in qualche canna fumaria.
    Oramai la mia anima è macchiata. Dio mi ha condannato. Ma con questo mio gesto folle potrò dare qualche giorno in più ai bambini che soffrono. L'inferno mi va bene se quelle povere anime si salveranno.
    Chiamalo...»



    Erano su quel cadavere. I bambini erano stati messi in stanza. Le loro mani stringevano pupazzi. Quelle degli uomini coltelli e seghe.
    Strette le une. Agitate e tese le altre.


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    Una risata cadde di tetto in tetto. Mentre Jurgen scendeva a chiamare Caleb si voltò per un attimo. E il volto fu deformato da uno strano ed inquietante ghigno.
    Come se qualcosa stesse strappando la pelle, mostrando il nero che si celava sotto quella maschera.
    Mentre gli uomini tranciavano e tagliavano. Mentre si serravano le mandibole su pezzi di carne, mentre i morsi della fame si facevano meno insistenti, mentre divoravano anche le loro anime che quel ghigno si fece oscurità e sangue. Colava ovunque come un velo tetro.
    Mentre i nazisti sbranavano, mentre altri sopravvivevano la perfidia e la dissoluzione consumava le anime. Inebriandole di un potere oscuro per poi essere loro stesse divorate.
    La lingua leccò un dito sporco di sangue.

    alsaErT
    «Io sono Huitzilopochtli, e questo sarà il vostro nutrimento! Il sangue e la carne dei vostri simili!»





    FORESTA AMAZZONICAOasi di Amacunu





    Camminava su un terreno ricolmo di frattaglie e visceri. Incurante calpestava quello che fu un eletto di Gea. Lo aveva distrutto. Lo aveva sventrato e sparso le viscere ai suoi piedi.
    Un blasfemo, bastardo, schifoso tappetto rosso fatto dal sangue e dalla carne di quel disgraziato.
    Il ghigno. La risata.

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    «El mayantu...mi pare che si chiamasse così. Poco male. Ma carne squisita.»



    Aveva il fegato in mano e lo stava mangiando pezzo a pezzo. Lo sguardo calò su tutti loro. Poteva sentire il brivido correre sulle loro schiene, il sangue farsi ghiaccio, la rabbia scomparire divorata dal terrore, dalla paura dall'impotenza. Ad ogni morso dato a quel fegato, strappava tutto questo dalle loro anime.
    Il disgusto rumore della carne masticata. Il sangue scivolare dai lati della bocca. Si asciugò le mani zozze con un lembo del vestito di quel poveraccio.

    «Mi avete offerto un aperitivo muy gustousu. Sapevo che eravate ospitali ma non in questa maniera. Vi ringrazio...»

    Si fermò. Le dita si accarezzavano le une alle altre. Passò dall'uno all'altro, sentì un bambino singhiozzare. Rumore splendido!

    «Sono qui non per intrattenermi con voi ma sto cercando Amacunu...sareste così gentili da dirmi dove sia?»

    L'intonazione era disgustosa. Era un grattare. Era un maciullare. Ogni parola sembrava divorasse letteralmente l'aria, persino gli uccelli caddero al suolo soffocati da un aria ancora più pesante.
    Era calato su di loro un sudario fatto di tenebre e paure. Dove il sangue e la carne erano richiami così innaturali e al tempo stesso così magnifici.
    Saziavano.
    L'anima si stava saziando a tale mensa oscena. Le tenebre divorarono quello che rimaneva di el mayantu. Sbavavano cose immonde, mentre pezzi venivano divorati e strappati come se belve affamate si stessero contendendo quel disgraziato. Mentre un nome veniva sussurrato. Il Brasile stava chiamando chi lo aveva sempre protetto. Il Brasile invocava aiuto. Piangeva. Piangeva quella gente così diversa: uomini e donne mischiati con i figli di Gea, spiriti del Brasile insieme agli indigeni con le loro lance fatte di legno, insieme ai fucili di chi era soldato o mercenario. Quel luogo aveva accolto tutti loro. Come da sempre faceva il Brasile. Ed ora aveva bisogno d'aiuto.
    E l'aiuto arrivò.
    Il canto del Rio delle Amazzoni. Il fiume del Brasile che dava la vita a tutti. Il piranha e il capibara. Il leopardo e il serpente. Il colibrì e il vento.
    Amacunu era arrivato. E fu una visione grandiosa e terribile.
    La sua Darian era l'intera Amazzonia. Ogni suo passo era la terra del Brasile che ruggiva rabbia e odio. Il suo respiro lo scorrere del Rio.
    Un uomo piccolo, con la pelle bruciata dal Sole del sudamerica, rugosa eppure dura come il cuoio. La folta barba dai toni marroni e rossastri.
    Era piccolo. Ma immenso. Come piccolo era il Rio quando nasceva, per poi diventare immenso.
    E ad ogni passo quel cosmo diventava sempre più, sempre di più immenso. L'intero sudamerica stava di fronte al Dio del Cannibalismo.

    «Vedo che il tuo posticino si è fatto molto interessante.»

    «Cosa cerchi?»

    Fu come sputata questa frase.

    «Naturalmente, te, fratello

    «Sono qui. Quindi?»

    «Quindi verrai con me o devo rendere questo tuo paradiso chiazzato di visceri e sangue?»

    Il cosmo di Amacunu sembrò inondare tutto. Un braccio fatto d'acqua. Gocce d'acqua che scendevano come rugiada. Schizzarono verso di lui, con una forza pari a palle di cannone per la pressurizzazione, con lo spirito a fare da polvere da sparo e quel braccio saettò ovunque, come un anaconda fatta d'acqua talmente calda da poter ustionare e stritolare.

    «Molto ma molto scenografico. Tipico tuo...ma …»

    La carne e il sangue furono lo scudo. Brandelli vennero sparsi ovunque, chiazze di rosso macchiarono il verde dell'Amazzonia, persino i predatori ne furono disgustati. Il leopardo si nascose ruggendo un misto di rabbia e inutilità.
    Per quanto riguardava il braccio...sapeva già come fare.

    Le tenebre strinsero un bambino. Le urla della madre. Gli altri impazzirono. Armi e fucili. Gli eletti di Gea erano sul punto di intervenire. Volevano anche se questo significava diventare solo ed esclusivamente cibo.
    Ma non potevano permettere che un bambino venisse ucciso. Non davanti a loro.
    E Amacunu fermò il suo attacco e il sorriso di chi aveva vinto cinse il volto da bastardo del Dio del Cannibalismo.
    La sua personale corona. La sua vittoria. La sua perla più preziosa questa.
    E quando colpì Amacunu al petto, strappando carne e muscoli si leccò la mano e le dita in un osceno e sessuale gesto. Un orrenda vista che fece voltare anche i mercenari, avvezzi a cose turpi e deprecabili.

    «Tutto magnifico. Hai creato un bel posto ma basta molto poco per inquinarlo e renderlo l'anticamera del mio personalissimo inferno

    «Ti fermerò!»

    «No. Non lo farai. Perché hai a cuore loro. Hai a cuore quel bambino. E così facendo io ho già nella mia mano il tuo

    «Perché?»

    «Perché il Grande Gioco cambierà regole e protagonisti...»

    La testa del piccolo stava già ruotando in una posizione innaturale. E l'unico pugno di Amacunu si serrò. Il Rio stava gorgogliando rabbia. Persino il vento era furioso. Il capibara uscì dalla sua tana per combattere insieme al leopardo.
    L'innaturale di chi era arrivato aveva fatto stringere ogni creatura vivente, animata o non, in un vincolo sacro.
    Eppure quel bambino urlava.

    «Manca poco e la sua testa schizzerà. Potresti vederlo come un brindisi, benaugurante, a questo nuovo evento.
    3...2...1...»


    «Verrò!Ma lascia in pace la mia gente.»

    «E sia.»

    Il sorriso fu l'anticamera di un orrore senza eguali.
    E lo fece perché voleva. Perché voleva fargli male sia al fisico che, sopratutto, all'anima.
    E la testa ruotò di scatto. Una pennellata rossa. La testa a volare dipingendo una macabra chiazza su di un cielo acre.
    Le lacrime di una donna spezzata. La rabbia degli altri.
    Le lacrime dagli occhi ciechi di Amacunu. La sua rabbia. La sua essenza gridò e lacrime di sangue buttava da quegli occhi ciechi, si, ma non a tale perversione e blasfemia. Non a tale orrore.
    Il sorriso soddisfatto.

    «Hai detto di salvare la tua gente e l'ho fatto. Ma non hai detto nulla sul piccolo. Vedilo come un sacrificio, necessario, per salvare questo tuo patetico gruppetto di letame.»

    Il sacrificio. Come quando ballava sui cuori delle vittime che sacrificavano a lui.
    Amacunu aveva sacrificato quel piccolo per il bene della sua gente? O era stato quel bastardo che lo avrebbe fatto ugualmente?

    «Sei un bastardo! Un vigliacco! Ti odio e non sei mai stato mio fratello! Mai! Mai!»

    «Sono degno figlio di chi mi ha creato. Ma odiami ancora di più, fratello. Odiami!»

    Amacunu e quel bastardo sparirono nelle tenebre e il mondo sembrò respirare. Ma a che prezzo? E perché?
    Cosa cercava? Perché tale violenza? La madre stringeva il corpo senza vita di suo figlio. Una piccola cosa che...non c'erano parole per descrivere, per far capire tutto questo. Si poteva solo osservare e l'anima veniva squarciata ad ogni urlo, ad ogni singhiozzo, ad ogni bestemmia lanciata verso il cielo.
    E quel cielo pianse. Lacrime cariche di pioggia. Di dolore. Caddero su quei corpi ma non alleviarono il dolore. Persino il Rio sembrò taciturno. L'Amazzonia era silente, solo la pioggia sulle foglie, batteva come i loro cuori ricolmi di dolore, in quei petti piegati e raccolti gli uni sugli altri.

    Amaterasu o mi kami
    Draka
    Astolfo
    Aiutateci vi prego. Aiutate Amacunu. G.E.A fa arrivare la nostra preghiera ai tuoi figli. Ti preghiamo, salva Amacunu. Ti preghiamo...ti preghiamo...ti preghiamo...




    E da qualche parte un ronzio terribile.
    Il Sole era nascosto eppure quel ronzio si fece tempesta. Da lontano. Da tanto lontano. Troppo lontano eppure veloce da abbracciare tutto il Creato.
    Un ronzio terribile.
    E sui Carpazi qualcosa lo sentì. Smise il suo massacro. Avanzò verso Nord.
    Il Tumore di G.E.A era diventato una maschera di livore ed odio. Non vi era più il sorriso sardonico, non vi era più la battuta, né una risata. Vi era solo quell'avanzare determinato e mortale.
    Il Rio piangeva. Eppure vi era un vento che lo accarezzava, che ne accarezzava le rive, che ne accarezzava gli alberi. Un vento che passava di foglia in foglia, il tocco di un qualcosa che non conosceva stasi né quiete.
    Quel vento fu per tutti loro. Scacciò il fetore della morte, l'acqua sgorgò dal Rio lavando e portando via il sangue, dando nuova speranza e una promessa.
    Un pugno a serrarsi al di là del tempo e dello spazio. Perché non dimenticava. Le nocche sbiancarono.
    Il ronzio fu tempesta e maremoto. Passò sul Rio e fu come un taglio che si propagasse sulla sua superficie.
    Come un predatore che cacciasse la sua preda.
    Vi era un fuoco che non si riusciva a contenere. Vi era una rabbia che era pari a infiniti vulcani.
    Tre essenze stavano dando la caccia a quel bastardo. Il Brasile lo capì. Lo capirono gli eletti, uno di loro gli sembrò quasi di vedere una nuvola farsi come tigre correre verso est.
    G.E.A aveva risposto?
    E allora perché piangevano? Perché erano tutti stretti l'uno con l'altro e un lieve sorriso ne increspò il volto?



    Hallgrímskirkja Islanda




    Una tigre di fuoco e veleno stava correndo per il mondo. Il suo ruggito fu terribile. Era pura rabbia. Puro odio. Era un qualcosa di così selvaggio e brutale da far tremare le schiene. Da spezzarle per la paura finanche.
    Quella tigre era a caccia. Stava avanzando da Sud, da Roma e dai Carpazi. Tigri di puro odio e livore.
    Saettò una su quello che rimaneva di Castel Sant'Angelo. Annusò l'aria.
    Continuò.
    I Carpazi vennero illuminati da lampi terribili, mentre serpeggiò tra crateri e gole un male necessario e giusto.
    Ma da Sud era tempesta vera. Spazzava il mare. Spazzava i domini di Poseidone incurante di tutto e tutti. Lambì le coste Africane e si fece palla di fuoco che lasciò una scia nel cielo, come una ferita. La stessa che aveva lui nel petto.
    E nell'anima.




    I suoi passi fecero tremare l'Islanda intera. Non vi era nulla di buono in questa storia. Quei passi erano battiti ferali. Sancivano quanto tempo gli concedeva per vivere ancora. Perché la sua sola presenza era violenza contro la Realtà intera.


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    «Esci.»




    Il vento gelido e ghiacciato gli rispose. L'ennesima provocazione. La sua figura emanava un lucore soprannaturale rischiarando debolmente l’aria umida e soffocante.
    Sentì il freddo pungergli il volto, ghiacciare la sua barba.
    Ma non uscì.
    No.
    Fu altro a spalancarsi.
    Il suolo si era spaccato in decine di punti sotto ai tuoi piedi, come se fosse stato uno specchio; si frantumò in miliardi di frammenti grigi, bianchi, neri e azzurri. Era come una lastra di ghiaccio che, per il troppo peso, si era spezzata.
    E le sue acque erano rosse.
    Perché sotto di essa brulicavano cose che fecero sanguinare la sua anima. Faceva male. Era come una sofferenza infinita. Morire infinite volte. Tutta la sua essenza si stava ribellando. Il Codice era in fermento.
    Un lago di sangue si era generato. Un lago rosso. Un lago scarlatto. Un lago di ogni colore del sangue. Era come un orrenda ferita. Come un orrenda bocca spalancata nella Realtà. Una ferita purulenta.
    E da essa, come una ferita, come un taglio malsano un nuovo fiume scorreva. Tagliava l'Islanda a metà sotto un cielo oscuro. Vomitava di tutto. Perché in esso orrende aberrazioni si nutrivano le une con le altre e anche di se stesse.
    Tremò l'Islanda e tremò Amaterasu a quella visione, orrende creature che si abbeveravano alla sua fonte, nutrendosi, gorgogliando, masticando, triturando, strappando bevendo. Sangue e carne. Il proprio o quello altrui.
    Era un qualcosa che andava al di là di quello che poteva essere detto a parole.
    Erano un qualcosa di distorto che proveniva da un altro mondo, da un altra piega del Multiverso stesso.
    E lo capì...perchè sentì un sibilo basso e acuto in ogni suo strisciare, in quel divorare se stessi e tutto. In quella nauseabonda pazzia, in quel turbinio di pura rabbia e follia.
    Di violenza e di brama di sangue.
    Qualcosa si stava sovrapponendo al Codice, al Continuum della Realtà e lui se ne sentì schiacciato, quasi piegato. Il ginocchio a terra eppure braci erano i suoi occhi, di furore antico, di odio.



    Quella chiesa ormai era profanata. Un sudario di carne e tenebra scendeva, lento, su di essa. Un ticchettio bastardo. Nero liquame putrescente, marciume, carne macellata, frattaglie orrende chiazzavano la sua pietra e la sua architettura ormai quinta teatrale perfetta per un orrendo spettacolo.
    Quello di un bastardo ormai libero dal giogo dei Padroni.
    Lui era lì...nera massa di nero che tutto divorava e tutto risputava in un orrendo pandemonio senza fine. Ballava sul pinnacolo più alto, gorgogliando la sua oscena risata che si mischiò al vento ferendogli le orecchie, facendole quasi sanguinare. Era un chiodo rovente che penetrava le carni e il cervello, continuando a raschiare sempre di più. Ma non arrivando al fondo. No...era una tortura lenta e continua.
    Si rialzò e quella voce riecheggiò ovunque. Rimbalzò di parete in parete, come un sasso lanciato sull'acqua.
    Era vento che sferzava il volto di Amaterasu, il ghiaccio che lo fermava era l'abominio di un essenza perversa votata a se stessa solamente.
    E da quel lago ribollente sangue...


    «No!»

    «Ben arrivata, o arrivato, Amaterasu o mi kami. Mancavi solo tu!»


    Amacunu era crocefisso su di una croce fatta di carni a brandelli e pezzi di viscere. Un ammasso ributtante di arti e corpi amalgamati in una montagna viscida e putrescente, inchiodato alla carne morta con lance che risplendevano come rubini incandescenti.
    Gli prese la testa. Il petto squarciato. Una ferita inumana, perché niente poteva sopravvivere eppure Amacunu era vivo. Tanto bastava? Ma perché era vivo? Perché non era morto?
    Ma sopratutto perché quel fiume nasceva proprio da lui?
    L'ennesima pazzia di quel bastardo? L'offesa al Creato? La sua personale vendetta?

    «Guarda chi è arrivato a salvarti, fratello. Amaterasu e Draka. I tuoi amici.»

    Accarezzò il suo volto sofferente. Amacunu era una smorfia di dolore. Il suo sangue ormai corrotto, la sua essenza stava divenendo divorata.

    Il ruggito del byakko di G.E.A crepò la terra. Era un qualcosa che poche volte avevano visto.
    La rabbia di un araldo nella sua più intima, pura essenza.

    «Io ti ammazzo!»

    «E non sapere cosa sta succedendo qui? Non mostrarmi le tue zanne non ne ho paura. Anche perché io ho lui. Non vorrai ucciderlo, vero? Troppo nobile. Tra tutti sei quello più imprevedibile eppure ora sei così impotente di fronte a me...»

    Il dito a passare sul viso, a giocare con la barba.

    «Cosa stai cercando di fare qui?! A cosa ti serve Amacunu? Vendetta?»

    Il piede destro frantumò la pietra per poi rigettarsi su quelle cose orrende che vennero spazzate via, mentre la Chiesa sanguinava e brandelli di carne cadevano dalla sua pietra.
    La risata mentre altri esseri stavano emergendo. Un fiume nel fiume. Mentre Amacunu ne veniva dilaniato. Il suo grido fece tacere per un attimo persino il vento freddo del Nord.

    «Ah...mi stai costringendo a dire cosa voglio fare? Eppure non mi sembra così strano. Ma forse perché tu non sai chi è il tuo amico

    Gli alzò la testa, strattonandola per i capelli.

    «Chi tradì la sua parte non fui io...»

    MA LUI



    Amaterasu fece un passo indietro. Il suo sguardo fu ferale.
    Il ghigno di Huitzilopochtli racchiudeva un abisso sconosciuto anche a lui. Non era il Chaos. Non era l'Oscurità di Erebus.


    «Sospettavo che fosse lui. Così come Draka prima di me. Ma non m'interessa. Ora è un eletto di G.E.A e come tale lo tratto. Quindi toglili le tue sudice mani di dosso, schifoso pezzo di merda!»

    La risata fu la risposta.

    «L'Imperatrice comanda. Ma se al suo comando non si risponde cosa succede?»

    Fu Kusanagi a mostrarsi. Insieme a quel sorriso che fu come uno squarcio sul volto ricolmo di odio dell'araldo.

    «Tu vuoi Amacunu per quale motivo? Stai aprendo un varco...eppure...»

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    Fu chiaro ora. Mentre quel mondo collassava, mentre la violenza e il sangue ribollivano e l'essenza di amacunu prosciugata, ad Amaterasu fu limpido lo scopo.
    I ricordi di Draka, il combattimento a Nevado Mismi...era tutto simile e diverso. Ma era chiaro cosa stava facendo.
    Di nuovo. E questa volta con più potere. Questa volta con più effetti dirompenti sul Creato.

    «Sei un degno Araldo. Voi Araldi siete così pressanti, così maledettamente difficili da aggirare. Ma cosa succede quando un daimon diventa un Eletto?»

    Due dita alzate.

    «Qui ci siete voi. Il Creato. Il codice della Realtà. E qui fuori abbiamo i Daimon.»

    La spazzata tagliò decine e decine di esseri mentre Amaterasu divenne terra che schiacciò, tentò di arginare quel fiume in piena che squarciava l'Islanda e non solo.

    «Stai attento, Imperatore. Non vorrei ripetermi...

    Quindi qui ci siete voi e qui fuori i daimon ma cosa succede se un daimon è un eletto di G.E.A? Se tradisce la sua parte e G.E.A lo rende facente parte del Codice?»


    La spada infilzò la terra. Un eruzione di luce e fuoco.

    «Che si uniscono e...»

    «E qualcosa può finalmente entrare al di là del vostro sguardo. Di tutti voi pezzi di letame. In tutto il suo splendore!»

    Ed era chiaro chi sarebbe arrivato. Ed era chiaro cosa stava aprendosi in questo mondo. Il Codice fremeva, veniva squartato, veniva sbranato. La carne e il sangue. La violenza. L'odio. La guerra e l'omicidio


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    K H O R N E




    «Tu vuoi far entrare Khorne per distruggere tutto?! Non è possibile...distruggerà anche te. Perchè non scendono a patti con voi...»

    «Pensi che sia un daimon a fare questo? Ma perché? Io non ho mica detto che faccio parte ancora dei daimon.
    Come vedi buon sangue non mente...anche io tradisco ma non per una causa di altri, ma solo ed esclusivamente per la mia. »


    Respirò a fondo l'araldo, mentre la sua darian divenne luce e terra.

    «Usi tuo fratello come nexus e recipiente. Le due parti per creare uno squarcio e farlo arrivare. Il Chaos. La morte. Tutto questo...con la Corruzione...il mondo sarebbe sventrato. Questo piano e innumerevoli altri...»

    Le mani strinsero l'elsa. Lo scopo degli araldi era anche e soprattutto questo. Per questo G.E.A li aveva posti sul muro. Per questo erano insiti nel Codice della Realtà.
    Perché la Realtà era sempre minacciata. Da forze fatte di tenebra e pazzia. Ma sempre vi sarebbero stati loro cinque a fermare la pazzia e l'orrore.
    Le darian erano state forgiate per proteggerli.
    E la darian di Amaterasu era ogni elemento del creato. Che danzava con lui e per lui, e lui con loro e per loro.

    «Certo! Per me siete solo pezzi di letame che galleggiano su questa latrina chiamata mondo!
    M'interessa di me. E quando arriverà...divorerò anche lui! In fondo le regole sono fatte per essere infrante e io non voglio più padroni se non me stesso!»



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    «Allora ti ucciderò. Finalmente ti staccherò quella lurida testa che porti da troppo tempo attaccata al collo!»



    La risata sguaiata. Le tenebre. La carne.
    Mentre Amacunu lentamente moriva del tutto. Mentre quel fiume stava straripando e tutto veniva consumato dal sangue e dal cannibalismo. Il mondo era diventato qualcosa dia divorare, pezzo a pezzo, gustandoselo fino in fondo. Orgasmando per ogni stilla di dolore e agonia strappata da esso.

    SEI SOLO




    «Questo mondo me lo voglio divorare io! E lui è ancora il mio cibo, testa di cazzo! E hai sbagliato ancora...un eletto di G.E.A non è mai solo. »

    Quel modo di parlare, quella camminata. Il Tumore di G.E.A era arrivato.


    ASTOLFO



    Le dita danzavano nell'aria, come ad artigliarla, la lingua a passare voluttuosa sulle labbra, gli occhi come due pozzi insondabili di puro male. Astolfo era un male necessario.
    Era un tumore tra i più bastardi e infidi. Eppure anche lui combatteva per questo mondo. Anche lui aveva un conto in sospeso con la sua nemesi. Perché se non avesse mangiato molto di Draka, oggi forse ci sarebbe lui lì sopra.

    La lama e il veleno. Amaterasu, Draka e Astolfo. E quel bastardo sorrise. Tutto stava per essere compiuto, mentre strani glifi comparvero sul corpo di Amacunu. Il grido di sofferenza. Il sangue. Un battito ancora. Forse l'ultimo.
    Non c'era più tempo.



    Edited by Lyga - 4/1/2021, 14:39
     
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    Amacunu aveva il respiro corto. Il dolore sul suo viso, quelle dita di tenebra che ne accarezzavano il volto. Il sorriso compiaciuto. Quel sangue che era un Rio delle Amazzoni rosso sangue, che divideva l'Islanda a metà, così come a metà era il suo petto. Squarcio terribile come quello che si stava aprendo su questo mondo.
    E vomitava, questo abominio, cose senza senso che si trascinavano, che volevano sangue, che volevano divorare e null'altro. Amaterasu fece un passo indietro.
    Non riusciva a combattere con la serenità nel cuore. Non poteva. Per ogni affondo dato, il suo sguardo andava sul volto di Amacunu, per ogni abominio tagliato a metà sentiva la sua anima sempre più venire ad essere meno; come se qualcosa ne succhiasse l'essenza.
    Non riusciva.
    Non ci riusciva a combattere senza pensare ad un modo per salvarlo. E non fu Araldo in quel momento. E il Re della carne lo capì.


    «Si...vedi Amacunu? Anche l'Araldo più imprevedibile, più orgoglioso tra i Cinque ormai non è nulla più che un micio piagnucolante. Guardalo come si affanna. Guardali entrambi. Persino Astolfo ritrae la sua violenza, il suo divorare.»

    Il sorriso turpe e compiaciuto di aver messo in scacco il Byakko di G.E.A. Non aveva zanne, non aveva artigli e più colpiva, più uccideva, più violenza e odio il suo cuore provava sempre più
    o rio de crânios e sangue sarebbe diventato sempre più grande, ancor di più le sue acque sarebbero divenute violacee di violenza e odio fino a quando l'intero mondo non avrebbe aperto come un frutto maturo.
    L'Islanda intera stava tremando, terremoti la squassavano, mentre sulle sue coste venti di tempesta ne spazzavano i fiordi e onde enormi violentavano le sue spiagge divorandole pezzo a pezzo.

    E in mezzo a questo Inferno in Terra la risata del Dio del Cannibalismo riecheggiò come tuono e fulmine.. Artigliò la testa di Amacunu, leccandone il sudore, inebriandosi della sua sofferenza.
    Stridio di lama su artigli. Circondato da un gruppo di orrori che strisciavano come serpi malevole, ne fu circondato, mentre Astolfo combatteva contro un mostro fatto di pezzi di carne, di corpi, di budella di centinaia di altri. L'urlo crepò la terra, aprendone squarci dove fiumi d'acqua bollente si riversarono verso il cielo sempre più rosso e osceno.
    La lingua di Huitzilopochtli schioccò sul palato.


    «Più combattono, più accelerano il processo. Ecco perché indietreggia. Devo ammettere che è davvero il Byakko, ma nemmeno i suoi artigli possono sperare di farlo vincere. Ti devo ringraziare, fratello. Grazie a te questo è potuto essere. Non ho sconfitto io, Amaterasu o mi kami, ma tu!»

    Le tenebre si fecero mantello. Fluttuavano intorno a lui come striature di un nero pece in un cielo rosso sangue, che lacrimava sangue e pezzi di carne.
    Ma Kusanagi ronzava. Astolfo era in silenzio. Arretravano eppure non si erano arresi.

    «Sembra che stiamo in trappola...vero Amaterasu

    Incrociò, il Dio del cannibalismo, lo sguardo con la Dea del Sole, e non trovò traccia di disperazione.
    La disperazione...il gusto della disperazione rendeva la carne ancora più morbida e squisita. La disperazione rendeva il cuore puro di un uomo, una latrina di merda e orrori che lo faceva sempre orgasmare. Inquinare con una singola goccia di tenebra le anime che si credevano pure quando non erano che pozzi di abisso e desolazione.
    La disperazione rendeva tutti loro burattini nelle sue mani. Marionette da muovere, da far sporgere su un Abisso travestito d'oro e di luce per poi gettarli dentro e vederli contorcere tra l'agonia e la consapevolezza che non vi sarebbe stata assoluzione, o potere, amore, orgoglio, desiderio. Erano solo pezzi di carne per il suo pantagruelico pasto.
    L'uomo era la creatura più disperata dell'Universo. Così facile da traviare, così facile da ingannare.
    E la disperazione che voleva vedere, che amava sentire quando i suoi denti affondavano tra la carne e il sangue ne bagnava le labbra da puttana mai sazia.
    Ma in quegli occhi non vi era nulla di tutto questo. Amaterasu lo guardava e non c'era desolazione, o paura. Non c'era nulla di tutto questo. Il suo cosmo continuava ad aumentare in forza e ampiezza, fino ad abbracciare quasi l'intera Islanda.

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    Occhi rabbiosi. Ma di una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che eliminava ogni distacco, ogni indulgenza.
    Occhi che volevano DIVORARLO.




    Amaterasu lo stava guardando come lui guardava ogni essere vivente. E il sorriso scomparve dal volto. Ora vi era un ghigno feroce. Che lentamente si stava trasformando in una smorfia disgustata.

    «Fastidioso.» Ed odioso allo stesso tempo.
    Il corpo di Amacunu venne percorso da una scarica. Una risata sommessa, tra il fiato mozzo e il dolore. Tra quella vita che stava scemando e il voler ancor resistere.
    Artigliò il volto del fratello e questa volta non vi era una superiorità becera. Questa volta non vi era il ghigno altezzoso. Quegli occhi stavano scavando incertezza.

    «ZITTO!»

    «Co...cosa c'è, fratello? Pensavi di poterlo spezzare?»

    La risata di Amacunu nella sofferenza erano scudisciate.
    La mano strinse, a fare male, la gola. L'altra si mosse. Con essa le creature. Carne e membra, sangue e violenza. L'ammasso abominevole di carni e corpi fusi insieme urlò da mille gole. Fece male. Tanto. L'onda spazzò Amaterasu e Astolfo che si potessero con quello che avevano, eppure lo shock fu intenso, il mondo si fece pazzo e senza senso. Confusionario. Un caleidoscopio di immagini confuse, sovrapposte che non avevano un ordine né senso. Quell'onda d'urto fece male, che sentì il petto ardere. Tossì sangue. Si liberò i polmoni però.
    Eppure la lama fu posta davanti al viso, un viso sudato, un viso che era una maschera di dolore certo, ma il dolore si poteva sopportare. No...non si poteva...si doveva sopportare. Non c'era alternativa. Non c'era scelta.
    La massa ribollente di budella, corpi e carne avanzava strisciando con un suono raschiante di carne maciullata che lasciava dietro di sé una viscosità a metà tra il sangue rappreso e la carne maciullata ormai nera e putrida.
    Astolfo si mosse con velocità.

    La sua forma, la vera forma di un tumore maledetto, si mostrò nella sua raccapricciante essenza.

    d50624cd637b9335464a25dcb0ea6f55 «E se ti mangiassi? Ci sarebbe sangue e violenza forse?»



    Fu una domanda retorica. Perché il veleno iniziò a corrodere la carne. Astolfo divorava. Lo aveva fatto con Draka a suo tempo, divorandogli un pezzo d'intestino, prima, lo stomaco in seguito.
    Astolfo divenne neoplasia. Cioè una nuova formazione, una massa di tessuto che cresceva in eccesso ed in modo scoordinato rispetto ai tessuti normali, e che persisteva in questo stato dopo la cessazione degli stimoli che ne avevano indotto il processo.
    In poche parole ora Astolfo aveva un corpo, formato da centinaia, di corpi per poter essere lui un male che poteva divorare l'intero mondo.
    Divenne un qualcosa che aggredì quel corpo. Erano pezzi di carne, formati da cellule che impazzirono formando metastasi continue e irrefrenabili. Intestini che marcirono fino a perdere liquidi e merda, stomaci che si spappolavano attorcigliandosi su loro stessi, tessuti che divoravano quelli sani in un processo che non conosceva una stasi. Perché ogni cellula adiacente ne amplificava il processo all'inverosimile.
    Astolfo era diventato una vera e propria metastasi su una scala mai vista prima. Il suo veleno era un tumore che aveva aggredito quelle centinaia di corpi trovando un terreno troppo fertile e vergine.
    Un corpo patria di ogni genere di sarcoma conosciuto. Il sarcoma...
    Vi era senso dell'umorismo nel Creato...perchè aveva generato questo male. Un male necessario, un dolore giusto, perché la tenebra e la luce dovevano coesistere in equilibrio per poter creare.
    E fu allora che Astolfo capì anche il suo ruolo. Essere un male per combattere altro male.
    E fu divertente esserlo.
    Fu divertente vedere le parti molle delle ossa venir divorate pezzo a pezzo o i fegati diventare pezzi inutili, insieme ai polmoni che strozzavano il respiro al suo nascere.
    E filamenti rossastri e neri fuoriuscirono dagli occhi e dalle bocche di quei corpi.
    Astolfo nasceva da quel corpo immenso. Non uno. Ma decine di altri. Pezzi di carne ormai ridotta ad un ammasso tumorale. Un escrescenza carnosa...il destino ha senso dell'umorismo vero?
    Nasceva divorando. Nasceva sorridendo. Nessun dolore. Nessuna sofferenza. Solo cellule che divenivano parte di lui, che divenivano lui stesso e che erano sotto il suo controllo.

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    Ma per quanti ne divorasse, altri ne spuntavano. Per quante metastasi si sviluppavano in quei corpi, altri divoravano i tessuti corrosi continuando a rigenerarsi per continuare la loro avanzata.
    Astolfo ebbe un fremito strano. La consapevolezza che per dare ad Amaterasu un opportunità serviva tutto se stesso. Ma anche, forse, la sua vita.

    «Ho tutti i corpi che voglio adesso. Sarà una gran cena.
    Tu vai. Io li fermerò. Loro divorano se stessi, rigenerandosi e divorando le mie metastasi, io loro. Vedremo chi arriverà al limite per primo.»



    La sua voce uscì gutturale, tenebrosa, non aveva nulla di mellifluo, di ironico, malizioso. Il suo volto era una maschera di volontà ferrea. Sapeva che la sua opportunità era anche di questi abomini.



    Avanzavano. Strisciando. Filamenti rossastri, come lance, sorsero dal corpo di Astolfo. Una tempesta fatta di veleno e dolore e tra corpi che si liquefacevano, altri che venivano inglobati, fu una battaglia oscena e malevola. Come solo chi è male e tenebra sa fare.
    Amaterasu guardò il bastardo. La sua spada toccò per terra.


    «Vuoi me? Ma come faresti con lui? Lo lasci morire? Lo lasci soffrire?»

    Amaterasu stava avanzando, mentre la pioggia si faceva incessante, mentre il mondo si stava spezzando e corrompendo, mentre il Rio del sangue diveniva uno squarcio che risucchiava ogni cosa e il cielo piangeva assurdità e orrore. Amaterasu avanzava in un Islanda che veniva scossa dai terremoti, mentre maremoti ne lambivano le coste spazzando ogni cosa. Quella chiesa era l'epicentro di ogni cosa. Una Chiesa...per pregare...una chiesa costruita per la divinità, per cercare conforto, parole che non riuscivamo ad ascoltare, per sentire noi stessi, per trovare pace ora era solo lordume.
    Le sue pareti colavano liquame nero pece, una fanghiglia di carne e visceri. Ma avanzava ancora. Un passo davanti all'altro, la spada che scheggiava la terra ronzando terribile nell'aria. Il respiro dell'una nell'altro. La rabbia farsi vento. Farsi acciaio. Il movimento fu repentino. Un qualcosa che spazzava ogni cosa, che squarciava, tagliava, lanciava via, spazzava via tutto. Il vento. La forza del vento a scacciare queste nere nuvole cariche di disperazione, a portare il cielo ad essere di nuovo azzurro, calmo. Non inquietante. Non osceno.



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    Quel colpo voleva spazzare ogni cosa. Le correnti d'aria crearono un vuoto, una cupola dove nemmeno la pioggia poteva toccarli.
    La mano sinistra del Bastardo si alzò, la chiesa si scompose in una muraglia di carne. Pezzi che volavano ovunque, sangue a schizzare per terra a macchiare le gocce di pioggia. E quegli stessi pezzi ora si riunivano. Un enorme braccio di carne e frattaglie che si alzò ricadendo come il maglio sul ferro.
    Amaterasu fu ventu. Scartò di lato, tra la polvere e i detriti, mentre risaliva quel braccio, tagliandolo contemporaneamente a metà.
    Ma il Dio del cannibalismo sorrideva ancora. Come un tumore era appollaiato sulla cima della Chiesa, artigliando il petto di Amacunu, sorridendo ancora e neri legacci sorsero dalle tenebre intorno a loro. Fruste di tenebra che sferzavano l'aria gettandosi come serpi malefiche intorno all'araldo, chiudendolo in una morsa e fu la pioggia ora ad inchinarsi ad Amaterasu.
    L'acqua fu muro. Mulinelli che avevano l'unico scopo di difesa. Di prendere tra i loro gorghi quelle spire maledette, risucchiandole e spezzandole. Amaterasu saettava, muovendosi tra goccia e goccia, mentre la sua spada falciava ogni cosa che si frapponeva dinanzi a loro.
    E finalmente fu vicino.

    «Quel tanto che basta per la spada...»

    Strinse ancora di più il petto di Amacunu il bastardo nero. Il grido di dolore squassò l'Islanda dal profondo. Fermò per un attimo la spada. Un momento. Lungo quanto una vita. Ma così veloce da divenire già passato nel momento in cui, lance di tenebra sorsero a mezz'aria intorno ad Amaterasu trafiggendolo da ogni parte. Il sangue schizzò copioso, bagnando l'architettura, divenendo subito acqua dissetante per quei bastardi. Divenendo la pittura preferita del Dio del Cannibalismo per poter continuare a dipingere il suo personalissimo Orrore in questo Mondo ormai pazzo, preda di forze oscure. Il pugno si abbatté come montagna sul volto. Sentì le ossa del naso scricchiolare, sentì un esplosione di dolore. Il bianco di contro al rosso. L'altro arrivò alla bocca dello stomaco. Spezzò il fiato. Non uscì nulla se non un rantolo basso, e poi un altro ancora. Tempia sinistra. La testa a girarsi di scatto, il mondo a farsi confuso e grigio, sottosopra addirittura, sentì il corpo sbattere contro qualcosa di duro che si spezzò subito dopo.

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    Faceva male.



    Fece male. Respirò a fatica. Sentiva il gusto ferroso in bocca. Dovette sputare per terra sangue e orgoglio. Tossì più volte e i suoi polmoni bruciavano, cercò Kusanagi con quegli occhi grigi, cercò di rimettersi in piedi scoprendo che il suo corpo non era pronto. Una fitta di dolore alla schiena, mentre bruciava il fianco destro, il dolore era un sudario, un pesante fardello che piegò il ginocchio sinistro dell'Araldo. Ripiombò a terra. Dovette appoggiarsi alla spada. Non riusciva a respirare bene, dovette togliersi l'elmo. I polmoni sembravano impazzire alla ricerca spasmodica d'aria.


    «Ma non basta nemmeno la spada. Idee, Araldo

    Chiuse gli occhi.
    Acuire la mente. Far calmare il cuore, togliersi quel sudario di dolore e freddo che aveva di dosso.

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    Acuisci la mente. Solo la goccia d'acqua può bucare l'asse di legno.
    La corrente non può scioglierla.




    Acuire la mente. Togliere tutto. Tutto quello che non era importante. L'orgoglio. La rabbia. Il dolore. Il freddo. Un corpo a pezzi. Acuire la mente. Rendendola affilata, rendendola come cruna d'ago.
    Far si che il mondo fossero solo loro due.
    Esplosione di luce. I fotoni stessi a rifrangersi sulle gocce d'acqua. Il taglio di Amaterasu erano diventati centinaia che non andava più in linea orizzontale, ma curvava, rimbalzava, non aveva più una traiettoria precisa ma infinite, come le gocce d'acqua della pioggia.
    Il colpo arrivò coprendo un infinità di punti e traiettorie. Erano fasci luminosi della grandezza di una cruna d'ago ma con un potere perforante simile a raggi laser.
    Di nuovo Kusanagi. Braccio d'oscurità e carne ad inglobare il filo della spada dell'Imperatrice.
    Occhi dentro gli occhi.
    Da una parte una rabbia di pura determinazione. Dall'altra la consapevolezza che per fermare quella macchina da guerra, quest'arma forgiata da G.E.A, doveva non spezzarla ma distruggerla e farla sparire nel gorgo del Nulla.

    Doveva ucciderlo e divorarne ogni pezzo, l'anima, l'orgoglio, la rabbia, l'Inizio di ogni vita, persino la sua non tecnica di spada. Tutto ciò che faceva essere Amaterasu lo avrebbe divorato spazzandolo via dal codice come se non fosse mai stato inscritto.

    «Perché non ti arrendi e basta?»

    «Perché non conosco questa parola.»

    Un movimento secco di entrambi. Il braccio libero, la spada pure. Di nuovo un arco argento tra gocce d'acqua, di nuovo la carne e la tenebra e sovrastarono il tuono e i terremoti.
    Amacunu era sempre di più al limite, così come Astolfo. Huitzilopochtli stava solo guadagnando tempo. O per meglio dire: stava ferendo, stava portando Amaterasu a provare dolore, a spargere il suo sangue affinché il processo fosse ancora più veloce.
    Astolfo fece per la prima volta un passo indietro. Perché stava sanguinando dalla bocca? E dal naso anche? Perché era così difficile fare un passo davanti all'altro?
    Lo era sempre stato? Ora aveva anche questo di dubbio...


    «Quanto potrai resistere? Sempre che tu non lo stia facendo apposta...mi lasceresti davvero sorpreso.»

    Il manto di tenebra saettò verso Amaterasu con l'intenzione di strappare la carne e divorarlo pezzo a pezzo. Ripose con fuoco e vento. Il primo a bruciargli, a liquefarli, il secondo a spazzarli del tutto come un raggio di luce faceva con la notte.
    Eppure sapeva cosa fare. Sapeva cosa doveva essere fatto...ma perché non provava nemmeno? Non riusciva nemmeno a finire di formulare quel pensiero.
    Sentì il grido di Astolfo. Anche lui al limite...era come una singola metastasi aggredita dalla chemioterapia e contemporaneamente dalla radio. Non aveva più un braccio e un occhio. Il respiro era corto.
    Di fronte a lui la Tenebra e la carne di vittime inconsapevoli. Quella tenebra nata nel cuore dell'uomo, che aveva avvelenato la carne e di conseguenza l'anima. Quel bastardo era al centro di questo vortice.
    Soddisfatto.
    Le sue dita sembravano suonare una melodia. Come se davanti a lui si trovasse un panforte invisibile.

    «Come vedi ho vinto. Più combattete più il processo sarà compiuto. Ma se non lo fate non lo eviterete.
    Scacco matto...avete solo rallentato l'inevitabile. Fastidioso, si, ma non più di una puntura di zanzara e...»


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    È QUESTO AMATERASU O MI KAMI?!




    L'urlo di Amacunu fu rombo di tuono e lampo.


    «Sai perché tradì la mia parte, Amaterasu? Perché eravamo e siamo egoisti.
    Abbiamo creato e distrutto incuranti di tutto tranne che del nostro ego.
    Cosa poteva esserci se non una continua guerra per dimostrare chi fosse il più grande? Non sarebbe nato nulla. Nulla si sarebbe creato e, in fondo, andava bene così. Perché l'importante eravamo noi. Ma noi siamo così importanti? Chi ci ha dato questo diritto? E perché molti dovevano sparire e soffrire per nostro capriccio?»


    I suoi occhi ciechi piangevano.

    «Era giusto ciò che fece Gea...lo sapevo e ho tradito. Non me ne pento. Lo rifarei, anzi, molto prima invece di assistere allo schifo che ci fu. E ho continuato a combattere perché questo dovevamo fare noi. Non arrogarci diritti che nessuno ci aveva dato ma dando la possibilità di essere a tutti.
    E voi araldi difendete questo. E lo dovete difendere anche se dovreste piangere, soffrire e sentire la vostra anima spezzarsi ogni volta.»


    Prese fiato. Ormai di Amacunu rimaneva poco. Eppure alzò il volto ormai scavato dal dolore dall'agonia e il suo cosmo si espanse.
    Quel cosmo parlava a quello di Amaterasu. Lo accarezzava, lo incitava. Era un lascito. Era un testamento di intenti e di una storia. Di una vita vissuta secondo il proprio credo. Non vi era dolore o preoccupazione ma un inno ad essere se stessi e a seguire la propria volontà.
    Di fare il giusto? Di fare il meglio con quello che avevamo. Amacunu aveva tradito e non senza lacrime: fratelli, compagni, credo, chi aveva soffiato la vita in un corpo che era solo un concetto al di là di tempo e spazio, al di là di milioni galassie che si infrangevano come vetri rotti perdendosi ma rimanendo nei ricordi di quegli occhi.
    Potevano essere persi? No...erano solo divenuti altro e aiutato a far crescere un quid.
    Eppure, proprio per quel quid, che Amacunu si alzò tradendo e combattendo per la causa di Gea e degli Eletti. Lui un Daimon ora difendeva coloro che che avevano reso possibile un opera che in fondo molti odiavano e volevano solo per loro.
    Egoismo.
    Amacunu fu generosità. Fu amore. Perché toccato dalle infinite creature che si agitavano davanti ai suoi occhi e che desideravano solo vivere. Crescere. Bene o male?
    Tutto si reggeva su due forze portanti e al tempo opposte. Ma chi decideva quale dovesse prevalere? Chi viveva e chi moriva?
    La Vita e la Realtà dovevano essere libere di esprimersi. E se fossero divenute un tumore, se un tumore le avesse divorate a poco a poco lo si sarebbe fermato. Lo si sarebbe combattuto.
    Lo si sarebbe ucciso.

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    «DRAKA LO AVREBBE FATTO!»

    Quello squarciò vomitò una violenza inconcepibile. Khorne stava arrivando e la terra tremò mentre il Rio di sangue ribollì e i corpi vennero liquefatti in esso.

    «Io sono un tumore ora! Io devo essere ucciso! Questo è il tuo compito. Il compito dell'Imperatrice. Il compito che ti è stato dato in affido. Nelle tue mani viene riposta la mia speranza e il futuro di quelli che ho protetto.»

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    «Non chiedermelo ti prego...ti prego...ti prego...»



    Huitzilopochtli sfruttò questo momento per attaccare Amaterasu. Da serpe malevola sfruttò il momento in cui la mente dell'Araldo era in tumulto, lì dove il suo cuore vacillava, lì dove poteva finalmente divorarlo. Eppure una massa di carne, sangue e veleno si frappose inglobandolo del tutto. Una stretta micidiale, sentì le ossa rompersi.
    Il volto di Astolfo fu davanti a lui. Il sorriso divertito. Quegli occhi, quella lingua che leccava il sudore che imperlava la fronte del fu daimon.

    «Il fatto che tu non mi prenda minimamente in considerazione lo trovo una grandissima mancanza di rispetto.
    Ti sei scordato che faccio parte di questi corpi? Un tumore ne prende possesso e li divora pezzo a pezzo. Quindi come ci si sente a doversi difendere da me e da loro contemporaneamente?»


    L'urlo del bastardo Nero. Di contro la risata di Astolfo. E in mezzo un pandemonio orribile.
    Ma ad Astolfo non importava. Perché poter strappare la carne di quel bastardo era un premio più che sufficiente. Aveva divorato corrotti su corrotti...ma ora...ma ora aveva un qualcosa di così appetibile. Un qualcosa di molto, molto antico.
    E sentirlo sotto la sua lingua, sentire il suo sangue e la sua carne lo inebriò a tal punto che nemmeno il dolore sentiva più.

    «T U S E I M I O!»

    Quell'ammasso di carne e veleno lo rinchiuse, soffocandolo, spezzandolo, ma per quanto?


    «Cosa significa proteggere? Cosa significa essere un Imperatrice?
    Questo!
    Io sono arrivato alla Fine ma tu ancora no. Tu hai il dovere e il diritto di uccidermi. É il tuo compito. La tua missione. Tu sei Amaterasu o mi kami, l'Araldo della Creazione e della Distruzione. Proteggi tutto questo e non devi avere remore.
    Quando si ha un tumore lo si distrugge. Anche se per farlo facciamo male a noi stessi. Draka lo sapeva. Draka non si sarebbe fermato!»


    Strinse così forte Kusanagi che un rivolo di sangue scese dal palmo destro. Come poteva? Come fare?
    Voltò lo sguardo...non voleva pensarci o vedere ma le parole di Amacunu lo raggiunsero come scudisciate su ferite già aperte. Sale sulle stesse. Ma era un dolore giusto.
    Stava evitando tutto questo. Guardò il cielo. Ormai tutto sarebbe stato compiuto. La pioggia nascose le lacrime che scendevano copiose.


    «Uccidimi! Fai tuo questo dolore. Rendilo acciaio per continuare a divenire più forte. Più affilato ancora. Sempre di più. Un Imperatrice è questo: lascia l'amore, i sentimenti, ogni cosa da parte per un bene superiore. Non di se stessa, non del singolo ma della collettività intera!
    Tu proteggi questa Realtà e non deve essere messa in pericolo per il mio egoismo e il tuo. Prendi Kusanagi e taglia!
    Ti prego...ti prego...liberami...fa...fammi morire come Eletto di Gea...»


    L'urlo di Amaterasu fu tenebroso. Fu dolore. Fu angoscia. Fu rabbia. Verso un ingiustizia, perché come potevano le sue mani farlo?

    «Infatti non posso...»

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    E fu detto in un sussurro orribile, in un agonia dell'anima di chi per adempiere al proprio scopo andava contro la propria moralità. Ma quanto era difficile mantenere il proprio cuore saldo quando il credo e il dovere si scontravano?
    Questo era il vero dolore. Un dolore che doveva sopportare. Che doveva tenere sulle sue spalle. Non era un eroe. Era un guerriero.
    Non era un araldo. Era un soldato. Non era un samurai. Era un qualcosa che stava sul muro a difenderlo. Perché aveva il potere di farlo, perché doveva ed era una sua responsabilità anche se gli stava stracciando il cuore.
    Incontrò il sorriso di Amacunu.
    Non era giusto lo stesso. Non doveva andare così...perché? Perché si doveva soffrire in questo modo? Perché? Perché doveva essere proprio lui?

    «Perchè sei un Araldo...e per esserlo, nessuno, ha mai detto che sarebbe stato facile. Ma solo tu sai esserlo, sai sopportare questo peso. Sono orgoglioso di essere un Eletto di Gea. Io che fui un daimon...Amaterasu grazie...»

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    «Nessun grazie...sono io a doverlo dire...io che sono un imbecille senza forza. Tu mi hai insegnato qualcosa che non dimenticherò mai.»



    Perché se era la Spada Nelle Tenebre vi era un motivo. Un motivo che questo dolore scolpiva nel suo cuore. Lo incideva con tutta la sofferenza necessaria affinché mai più dimenticasse la lezione. Perché per poter stare sul Muro, per essere un Araldo degno di starci doveva attraversare oceani di dolore e farsi carico della sofferenza della Realtà tutta. Era il suo ruolo. Il suo scopo. Il motivo per cui era un arma e al tempo stesso uno scudo.
    Eppure continuava a piangere.
    Per essere Imperatrice anche il dolore e la sofferenza dovevano far parte della sua corona. Il suo cammino solitario. La sua spada pronta ad essere sguainata senza remore.

    Il dolore è il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime.




    Ma perché doveva sempre fare così male? Perché per avere qualcosa di buono bisognava passare tra oceani di sofferenza? Con la speranza di trovare terra la felicità.
    Era difficile essere Amaterasu o mi kami. Una responsabilità che a volte l'aveva schiacciato. A volte la caverna un grembo materno per non avere nulla che più una spada e l'animo del ronin.
    Un samurai...a volte non voleva esserlo. Voleva danzare. Voleva suonare. Voleva dormire sotto gli alberi, con nulla di più che il vento ad accarezzargli la faccia.
    Aveva seppellito amici. Aveva seppellito compagni. Lo aveva fatto col sorriso sapendo che avevano dato tutto, che era stata una loro scelta combattere, che la morte fa parte della vita ma, cazzo, cazzo perché le sue mani dovevano uccidere Amacunu?
    Draka lo avrebbe fatto? Draka era cinico, era duro, soffriva ma conoscendo il dolore lo voleva evitare agli altri. Piangere non serviva.
    Eppure lo stava facendo. Lo guardava. Gli sorrideva. Al proprio carnefice.
    Poi guardò quello strappo e una cosa venire giù.
    Una mano ad artiglio che strappò la terra.

    «è difficile...ma puoi permetterlo? Questo è il cammino che hai scelto ogni giorno e...»

    Un grumo di sangue. Gli occhi ad aprirsi di un rosso immondo. La risata che gorgogliava da un petto squarciato in modo innaturale. Il ribollire del sangue. Il ribollire di quel fiume. L'Islanda sarebbe stata tagliata a metà.
    Khorne stava per arrivare. E stava per prima cosa facendo svanire Amacunu. Il suo corpo il recipiente per accogliere l'oscenità, la violenza e il sangue tanto caro al Dio del caos.
    La Realtà già si sfrangiava...ma vi era ancora qualcosa che lottava nelle profondità di un abisso incolmabile e senza senso. Lì, nel caos e nel sangue Amacunu strinse il suo pugno verso il cielo fermando Khorne con tutta la sua vita e con quello che rimaneva del suo spirito.

    Sono un eletto di Gea! Non pensarmi debole, bastardo! Puoi avere il controllo della mia mente, della mia anima, del mio corpo. Sono la tua marionetta...si...ma non avrai mai il mio orgoglio di essere parte della Madre!



    Il cosmo ruggì. Amacunu era rabbia. Era il Brasile. E continuava a battersi. Di fronte alla morte. Alla fine. Nulla di quello che era lo avrebbe lasciato a Khorne o chicchessia.

    E il cosmo di Amaterasu avvampò. Kusanagi si alzò al cielo. Ogni elemento del Creato sulla sua lama. Ogni stilla di rabbia, di malinconia, di tristezza, di dolore, d'orgoglio. Ogni goccia caduta sull'Islanda, la rabbia verso questo destino infame, verso se stessi, la volontà di non cedere, di continuare a proteggere la Realtà, di avanzare sopportando dolori e perdite in silenzio, di ferite, di veleno. Tutto questo era sul filo di Kusanagi. Non piangeva ma ronzava. Un canto.
    Era il suo modo per onorarlo.

    «Sei stato magnifico...»

    Il respiro. Huitzilopochtli stava urlando qualcosa, tentando di liberarsi dalla stretta di Astolfo.

    Il dolore è la cosa più importante nell’universo. Più importante della sopravvivenza, più grande dell’amore, maggiore anche rispetto alla bellezza. Perché senza dolore, non ci può essere nessun piacere. Senza tristezza, non ci può essere felicità. Senza miseria non ci può essere bellezza. E senza queste tre cose, la vita è senza fine, senza speranza, condannata e dannata.




    E se così doveva essere, se per essere ancora più forte, più maturo, per difendere il muro, se per farlo doveva bere dal calice del dolore e della sofferenza allora così avrebbe fatto.
    Se doveva tenere sulle sue spalle il dolore del mondo lo avrebbe fatto affinché la sua lama divenisse sempre più tagliente e il suo taglio colpire chiunque avesse scalato il Muro. Ovunque si nascondesse.
    Un altra lezione che apprendeva nel sangue.
    Che si incideva come cicatrice indelebile nel suo cuore e nella sua essenza.


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    «Khorne questo è il mio taglio. Finché ci saremo, proteggeremo tutti. È una promessa che faccio sul sangue del mio amico.»



    E quando la lama cadde, cadde il Creato su Amacunu. Ogni cosa vorticò e fu libera di essere. Ogni cosa colpì Amacunu. La pioggia e lo spirito. Il suo cosmo avvampò nel fuoco di Amaterasu, mentre l'acqua lo portò in abissi sempre più oscuri e profondi. Il vento lo tagliò e gli mozzò il fiato e la terra lo seppellì. Mentre la luce inondò i suoi occhi ciechi, colmandoli di nuovo per poi far esplodere il suo corpo centinaia di volte in un qualcosa che si creava e si distruggeva contemporaneamente.
    Quel taglio fu terribile. Perché non fu fatto con rabbia ma con una tristezza infinita, mentre gli occhi non avevano più lacrime da versare.




    Tutto era finito. Il vento freddo dell'Islanda sul viso. Il boato riecheggiò nel cielo spazzando il temporale, come se nulla fosse mai successo. Ma le mani di Amaterasu ferite e rotte, tremavano reggendo un corpo di un qualcosa che aveva chiamato amico.
    Astolfo riverso a terra cercava di rimettersi in piedi sputando e vomitando sangue, il fiato sembrava di fuoco per come faceva bruciare i suoi polmoni.
    Il Bastardo Nero era in piedi con l'espressione tra il soddisfatto e l'incredulo. Aveva vinto? Perso?
    Aveva un braccio mozzato, mezza faccia sventrata e le costole erano solo una poltiglia.

    «Non vinciamo e non perdiamo...o forse è solo una mossa sulla scacchiera...al nostro prossimo incontro Amaterasu.»

    Il Dio del Cannibalismo era ferito ma non perdeva nulla della sua alterigia. Ma come doveva rispondere Amaterasu spezzato nel corpo e nello spirito? Aveva vinto? Si era una vittoria...ma era anche una sconfitta.
    Huitzilopochtli aveva ragione? Non aveva vinto nessuno e allora perché quel gusto amaro in bocca?
    Perché si sentiva sconfitto?
    Aveva vinto lui. Non era riuscito a divorare Khorne, per il suo folle piano, ma aveva divorato Amacunu e un pezzo dell'anima dell'Araldo.
    Cosa doveva rispondere?

    «E sarà l'ultimo te lo giuro!»

    Le uniche parole che si sentiva di dire. Di cui non si vergognava. Le uniche parole che contavano davvero.
    Il sorriso del bastardo lo colpì. La sua risata fiele maledetto e poi il silenzio...un silenzio che fu macigno terribile. Non voleva il silenzio. Voleva i canti. Voleva danzare per non pensare. Per non ricordare, per cercare di dimenticare tenendo la mente occupata sul presente.
    Eppure stringeva il corpo del suo amico. Aveva dato tutto. Tutto per Gea. Aveva sacrificato ogni cosa. Gli occhi prima, per fermare la cieca ambizione di suo fratello. Poi il braccio per Draka e Amaterasu. E ora, infine, la vita.
    Era giusto?
    Se lo domandò più volte se fosse giusto che questa vita fosse stata offerta in sacrificio e i singhiozzi squassarono il suo corpo. Pianse abbracciando quel corpo. Continuando a colpire per terra come a sfogare una rabbia che lo avvelenava.
    Lo stringeva a cercare qualcosa, come se non esistesse null'altro. Non voleva lasciarlo andare. La colpa che gli cadde addosso fu tremenda.
    Ma doveva sopportarlo. Era anche questo essere un Araldo. Colonne che sostenevano. Amacunu aveva lasciato un eredità nelle sue mani...eppure...un vento caldo da est. Lontano...al di là dell'oceano. Lì nel cuore della foresta Amazzonica. Lì alla foce del Rio delle Amazzoni. E alzò i suoi occhi.

    «Torniamo in Brasile, meu amigo.»

     
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