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Sixter

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    W.O.A. I
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    SIXTER


    V. VAN GOGH - TERRAZZA DEL CAFFE' DI NOTTE

    « Una volta che il nostro breve giorno si spegne,
    abbiamo davanti il sonno di una notte senza fine... »
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    - Catullo, "Carmina V, Ad Lesbiam"

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    TERMINE ULTIMO: 24 AGOSTO
     
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    Era una brezza sottile a portare tutti i profumi di una città che si svegliava, il leggero mormorio crescente dei primi respiri di un nuovo giorno, delle prime parole, dei primi baci. Candice Penelope Hayez si portò alle labbra la tazzina, prendendosi un momento per inspirarne il profumo prima di bere un sorso e rimanere immobile, mentre tutte le sfumature del sapore di caffè si dissolvevano sulla sua lingua e le raccontavano la propria storia.

    Sorrise leggermente, lasciando che i pensieri si attorcigliassero fra loro come fili di fumo quando il leggerissimo tintinnio del piattino interruppe il loro corso e ci fu di nuovo silenzio.
    Scorse l’occhio sinistro, l’iride nera come una biglia di onice, sulla piazzetta immersa negli ultimi, pigri attimi prima che le prime figure cominciassero ad affaccendarsi sotto le ombre dei lampioni ormai spenti da un pezzo e accavallò le gambe affusolate, notando con rammarico una leggerissima rovinatura sulle scarpe di vernice nera, rilassandosi sulla sedia di metallo.

    Candice amava aspettare. Faceva parte della sua indole come respirare ed era in grado di godersi ogni singolo minuto in modo diverso: le bastava concentrarsi su un senso o su un altro, ascoltando i rumori provenienti all’interno del piccolo caffè o della coppia che abitava al piano di sopra – come amava intrufolarsi nelle vite della gente in quel modo, cogliendone i barlumi senza che nessuno potesse saperlo.
    Guardò un uomo affacciarsi dal vicolo e fissare guardingo gli occhi azzurri su quel caffè, bloccandosi di colpo. Ricambiò con un’occhiata distratta il suo sguardo stupito, prima di rendersi conto che era diretto proprio a lei: da dietro gli occhiali da sole lo osservò gettare occhiate nervose attorno a sé, tormentando fra le dita un pezzo di carta, il cui suono sofferente arrivò alle orecchie di Candice con più informazioni di quante lei ne volesse in quel momento. Buona carta, sicuramente non quella che si usa per una stampante, probabilmente carta da lettere alla vecchia maniera, con un leggero profumo di…iris? No, forse era ibisco, era difficile capirlo a quella distanza senza concentrarsi.

    Lui era giovane e biondo, con un naso che si sarebbe potuto definire importante se non fosse stato fuori posto sui tratti delicati del resto del viso. Occhi azzurri, scintillanti di apprensione, ma con leggeri cerchi scuri sotto di essi. Uno studente, forse, vestito in fretta senza badare al fatto che si era abbottonato male la camicia, saltando un bottone, e con una scarpa di tela non allacciata. Dal suo respiro affannato aveva corso, forse non nell’ultimo tratto di strada, ma i battiti frenetici del suo cuore trasmettevano alla donna una certa dose di ansia, sorpresa e paura. Paura di cosa? si chiese, spostandosi leggermente sulla sedia per prestare più attenzione a quella che, secondo il suo istinto, avrebbe potuto rivelarsi qualcosa di interessante.

    Pochi istati dopo fu un altro respiro corto ad attirare Candice, stavolta dall’altra parte della piccola piazza. Un singulto nel momento in cui la vide, seduta al tavolino del caffè, e rimase ferma immobile con il cuore in tumulto. Il profumo di ibisco era sottile, ma inconfondibilmente lo stesso che proveniva dalla carta torturata dalle mani del ragazzo a dieci metri da lei. Anche lei era bionda, ma in maniera più luminosa, con gli occhi verdi accesi d’apprensione mentre si mordicchiava il sottile labbro inferiore. Bella, decisamente più grande di lui, di una bellezza sofisticata tanto quanto il ragazzo vicino a lei emanava il fascino dello scrittore squattrinato.

    Non potevano vedersi, intenti com’erano a fissare l’orologio, il biglietto o a stropicciarsi l’orlo della maniche del vestito azzurro, in un’attesa che diventava sempre più disperata a ogni istante che passava. Candice inclinò la testa, pensierosa: come mai nessuno dei due avanzava? Guardò l’ora: le sei e quindici minuti. Barquiel sarebbe stato sicuramente in ritardo e il piccolo spettacolino di fronte a lei era sicuramente un modo per ripagare l’attesa.

    “Guy, dove sei? Ho il treno per Parigi tra poco…”

    Che coincidenza. Che fosse lo stesso che doveva prendere lei? Sei e cinquantacinque, Arles-Nimes-Gare de Lyon, ora di arrivo 10:45. Sorrise leggermente fra sé e, distratta, prese il telefono in mano, quasi bloccandosi nel momento in cui sentì un respiro strozzato e uno scalpiccio di piedi allontanarsi. Alzò lo sguardo in tempo per cogliere un lembo del vestito azzurro della ragazza svanire nel vicolo, finendo di comporre il numero.
    Il conte rispose al primo squillo.

    “Candìce, mà chere. Sto arrivando, sono proprio dietro l’angolo.”

    E in effetti era così: la figura alta e bionda del collezionista scelse proprio quell’istante per comparire, un mezzo sorriso sul bel volto dai tratti affilati e gli occhi verdi che brillavano di bieco interesse dietro gli occhiali dalla montatura rotonda. Aveva tutta l’aria di uno appena tornato da una vacanza, con i pantaloni khaki e la camicia di lino immacolata, se non fosse stato per la costosa valigetta di cuoio – il cui profumo aveva avvertito Candice della presenza dell’uomo da ben prima che comparisse – e il telefono ancora accostato all’orecchio. La donna lo fissò per un lungo momento, poi chiuse la chiamata con uno scatto secco del pollice e distese le gambe, avvertendo anche i passi del ragazzo allontanarsi. Si alzò, senza scostarsi gli occhiali da sole dal viso e accogliendo l’uomo con un sorriso caloroso, ricambiato da uno sguardo di malcelato e affabilissimo disprezzo. Non era un mistero che i rapporti tra lei e i collezionisti fossero estramente tesi. Se per molto tempo aveva rubato fisicamente le opere d’arte per accrescere la sua, di collezione, adesso il suo business era un altro: stimolare l’odio reciproco tra uomini e donne che vedevano nell’arte un solo e unico, grande scopo.
    I soldi.

    Era ovvio che lui avesse ritardato apposta, aveva aspettato in una macchina parcheggiata poco lontano, tra i vicoli. Faceva parte dei pressoché infiniti stratagemmi per tentare di avanzare un vantaggio nella trattativa e il conte Barquiel soprattutto sembrava avvalersene quasi da manuale, nonostante fosse un idiota. Candice si atteneva a quei giochetti per pura e semplice abitudine: chiamarlo aveva l’unico scopo di comunicargli un senso di fretta da parte sua, che lo avrebbe più baldanzoso e meno attento ad altri dettagli. L’uomo si sedette con tranquillità, ordinando con galanteria consumata due macchiati, ovviamente senza chiedere a Candice cosa preferisse.
    La trattativa fu serrata, le parole velate di veleno addensavano l’aria sopra al tintinnio delle tazzine coperto dai rumori della piazzetta ormai in pieno movimento per il mercato mattutino e dal rumoreggiare degli altri clienti che affollavano il famoso caffè di Place du Forum. Una scelta di pessimo gusto, considerando che l’oggetto dell’affare era un Picasso, ma come già detto il conte era un idiota.

    “Non ha un treno da prendere, ma chére?”

    Il sorriso affabile accompagnò il pollice che indicava l’orologio della piazza, ormai in procinto di battere le sei e quarantacinque. Quello che Barquiel non sapeva era che a lei non serviva prendere il treno, molto semplicemente aveva deciso di menzionarglielo per lasciarlo elucubrare strategie per metterla in difficoltà.

    “No, e lei?”

    Ah, la soddisfazione di vedere il sorriso incrinarsi per un solo, singolo millimetro. Dovevano essere entrambi a Parigi entro le undici per comunicare il risultato della trattativa di persona, sarebbe stato impossibile essere puntuale se non avesse preso quel treno da Arles, considerando il taxi e il traffico mattutino.
    Impossibile per tutti, tranne che per lei. Vide nettamente dietro al suo sorriso cortese l’arrovellarsi delle rotelle, cercando di capire quale fosse la menzogna, mentre i due si salutavano con una stretta di mano poco convinta. Candice rimase a guardarlo allontanarsi con la calma più assoluta, ascoltando il rombo del motore (Volvo?) e le imprecazioni del conte all’autista per fare più in fretta, prima che un profumo familiare la attirasse verso un angolo della terrazza del caffè.

    Il ragazzo era lì, il pezzo di carta ancora stretto tra le mani. Le dava le spalle, ma non era difficile indovinare che stesse trattenendo indietro le lacrime. Lui ebbe un sussulto e si voltò di scatto, incontrando lo sguardo celato della donna con il suo e gli occhi si socchiusero leggermente in un’espressione di ira inconfondibile. Si alzò e venne verso Candice con i pugni stretti, torreggiando sulla sua figura seduta dall’alto di tutto il suo esile corpo. Faceva abbastanza ridere, ma la donna rimase impassibile.

    “Immagino che il signor Morel sarà contento.”

    Lentamente, Candice sollevò la testa e sorrise..

    “Oh, immagino di sì. Chiunque egli sia.”
    “Non faccia la finta tonta. Era qui esattamente al tavolo dove dovevamo incontrarci io e Claudette, c’era un segno.”

    Indicò qualcosa sul tavolo, che Candice notò essere un piccolo vaso di fiori viola. Fece girare lo sguardo sugli altri tavoli senza muovere la testa, rendendosi conto che tutti gli altri fiori, nei piccoli vasetti da marmellata, erano gialli. Capì e quasi le venne da ridere, ma si trattenne per far mantenere la dignità a quel ragazzo che la fissava con i pugni frementi, incurante degli sguardi perplessi degli altri avventori.
    Invece, lo guardò con un’espressione severa, godendosi ogni singolo istante di quel gioco.

    “La ami, ragazzo?”

    Lui ebbe un leggero fremito mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime, che erano ormai impossibili da trattenere. Abbassò la testa, le spalle scosse dai singhiozzi.

    “La amo più della mia stessa vita. So che non sono abbastanza per lei, il signor Morel me l’ha fatto capire anche troppe volte, ma io la amo. Adesso lei è a Parigi e prenderà il volo per gli Stati Uniti, dove non potrò mai raggiungerla…”

    Si abbandonò sulla sedia accanto a Candice, il corpo squassato dai singulti delle lacrime silenziose. La donna lo osservò a lungo piangere, ma si guardò bene dal passargli un fazzoletto o chiedergli di più a riguardo. E perché mai, in fondo, il gioco reggeva bene.

    “Non posso dire che non sia dispiaciuta, ragazzo. Ma a volte certe cose non sono proprio possibili.”

    Rimase a guardarlo con un’espressione distante, sentendo su di sé gli sguardi incuriositi, scandalizzati e per certi versi arrabbiati della piccola folla intorno a loro. Una folla di sconosciuti in attesa di un evento che scuotesse le loro monotone vite e di cui non avevano intenzione di perdersi neppure un secondo. Il ragazzo di nome Guy finì di piangere dopo poco, tirando su col naso e guardandola, le iridi incredibilmente brillanti sugli occhi arrossati.

    “Voglio…voglio solo che le diate questo. Sparirò dalla sua vita, lo giuro, ma voglio solo che Claudette veda queste parole. Non..non ho altro modo per dargliele, capisce?”

    Le passò un foglio piegato in quattro, spiegazzato dopo essere stato tenuto nella tasca posteriore dei jeans un po’ troppo a lungo. Candice lo prese e lo rigirò fra le dita, le labbra curvate in un sorriso triste.

    “Stai riponendo in me un po’ troppe speranze, Guy. Perché dovrei darglielo?”

    Lui la guardò e sul suo viso Candice vide tante cose. Tante possibilità, tante promesse, tanti futuri su quel viso giovane e pulito. Era sicuramente di buona famiglia: i vestiti che indossava erano all’apparenza semplici, ma erano decisamente costosi, sebbene usurati. Qual era il suo passato? Perché si era innamorato di quella donna? Rimasero in silenzio a guardarsi per un paio di minuti, prima che lui aprisse bocca per dire qualcosa; restò a bocca socchiusa per un istante, priman di scuotere mestamente la testa e alzarsi.

    “Buona giornata, madame.”

    Qualche momento dopo era sparito senza voltarsi.
    Un treno in lontananza partì, dopo il lungo fischio del capostazione.

    ***

    Si sedette sulla stessa sedia, più tardi. Il caffè si era svuotato e il barista stava mettendo a posto i tavoli, scacciando garbatamente gli ultimi clienti prima della chiusura. La piazza aveva lo stesso languore del mattino, mentre gli ultimi passanti si affaccendavano per tornare a casa. La coppia che abitava al piano di sopra chiuse la porta d’ingresso dietro di loro, parlando di un film di cui Candice non riuscì a cogliere il titolo prima di sedersi all’unico tavolo rimasto occupato, ignorato dal barista.

    “Gli Stati Uniti, eh?”

    Claudette alzò lo sguardo, gli occhi verdi pieni di sorpresa immediatamente sostituita dal sospetto.

    “E lei sarebbe?”

    “Nessuno di importante. Perché illuderlo così?”

    Lei non disse nulla, la bocca socchiusa in un muto stupore, le sopracciglia arricciate in un cipiglio furioso. Alla luce dei lampioni il suo viso aveva assunto un colorito giallognolo e gli occhi brillavano di una luce diversa, sinistra. Le prime rughe le contornavano il viso e gli angoli della bocca erano rivolti all’ingiù, le labbra tremolanti. Ma nei suoi occhi, Candice vide il timore di essere stata scoperta.
    Tutto il resto era una facciata per nasconderlo.

    “Io…beh, se ne farà una ragione, è giovane e adesso sarà già a Nantes. Ma lei chi è e cosa vuole? Se è lui a mandarla può dir-”

    Candice scosse la testa, avvertendo dei passi familiari avvicinarsi da un vicolo poco lontano e alzando un dito affusolato di fronte alle labbra.

    “Ho una certa passione per le storie d’amore tormentate…anche se la vostra ormai non fa decisamente parte di quelle che catturano il mio interesse. Sanno di già visto, capisci?”

    Si alzò, scostandosi la polvere dal vestito nero con noncuranza. Tremante di rabbia, l’altra donna si alzò bruscamente, facendo stridere la sedia di metallo sulle piastrelle della terrazzina. Fece per afferrarla per un braccio, prima che una voce dietro di lei la irrigidisse sul posto.
    Il tonfo di una valigia che cadeva sui sanpietrini.

    “…Claudette? Sei…sei tu? Non dovevi andare a New York con tuo marito?”

    Quando la donna si voltò, il dito accusatore già puntato su qualcuno che non era più lì, la bugia già perfettamente formata le morì in gola, portata via da una raffica di vento che strappò via qualcosa dalle mani del ragazzo.

    I biglietto piegato in quattro, gli angoli spiegazzati e resi soffici dall’usura, volteggiò qualche istante nell’aria carica di piccoli petali viola prima di svanire, minuscoli frammenti che si dispersero nel buio di una notte appena cominciata.

    ***

    Ho voluto ispirarmi al Carme V di Catullo in maniera un po’ diversa. Non alle parole in sé, su cui ci sarebbe da scrivere un’eternità e che sono perfette già come sono, ma alla loro storia e, soprattutto, alla donna per cui sono state scritte.

     
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