Armageddon: La Caduta dell'Olimpo

Gaz, Ichi, Gabriel

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    Ed infine il grande giorno arrivo!
    Il giorno in cui la speranza venne spazzata via dall'umanità stessa. Le tenebre avvolsero avvolsero l'olimpo trasformando il simbolo del potere degli Dei nella loro stessa prigione, dove il male banchettava con le anime degli Olimpici. Entità oscure e tetre, come mai se n'erano viste dall'alba dei tempi: giunsero nei templi, privandoli di ogni ogni cosa, di ogni potere, di ogni loro emozione. Corpi senza vita, involucri privi d'anima, riempiti dalle larve della disperazione, venivano riportati indietro come semplici marionette asservite ad un signore che non esiste, ad un'entità che non è un'entità, ad un qualcosa che non si può combattere.

    È la fine per tutti noi!

    La piccola Atena convoca il suo guerriero più fidato, l'unico uomo presente al Santuario in grado di fare qualcosa: il Gran Sacerdote. Lei è debole, sente il male distruggerla e privarla dei suoi poteri, è cosciente per capire che sta per arrivare la fine. Daya corre, comprende che la fine di ogni cosa è prossima e quando giunge nelle sue sale la vede sofferente, il sangue che le esce dal naso e dalle orecchie e con le poche energie rimaste apre il varco per la terra degli Dei.

    «Daya ... ti prego fai qualcosa prima che sia troppo tardi»

    Il Sangue della Dea macchia le vestigia della Vergine, permettendo in tal modo al Gran Sacerdote di non perire nell'Olimpo. La situazione è critica e solo un miracolo potrà permettere agli uomini di salvarsi.

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    Note del Master: Arrivato nell'Olimpo, troverai solo morte e distruzione in ogni dove. Trovi Angeli e divinità morte, le quali emettono una strana aura malefica ma non saranno loro il tuo obbiettivo. Quello che ti viene richiesto è fare una One Post dove dovrai affrontare uno dei vessilli del Male: la Malattia! Gestisci te la cosa come meglio credi, insomma come se fosse una normalissima WOA.









    Ed infine il grande giorno arrivo!
    Il giorno in cui la speranza venne spazzata via dall'umanità stessa. Le tenebre avvolsero avvolsero l'olimpo trasformando il simbolo del potere degli Dei nella loro stessa prigione, dove il male banchettava con le anime degli Olimpici. Entità oscure e tetre, come mai se n'erano viste dall'alba dei tempi: giunsero nei templi, privandoli di ogni ogni cosa, di ogni potere, di ogni loro emozione. Corpi senza vita, involucri privi d'anima, riempiti dalle larve della disperazione, venivano riportati indietro come semplici marionette asservite ad un signore che non esiste, ad un'entità che non è un'entità, ad un qualcosa che non si può combattere.

    È la fine per tutti noi!

    Finalmente il giorno della disfatta era giunto. Aizen lo sapeva da tempo, lui che fu uno dei pochi eletti a cui era stato concesso il privilegio di sapere cosa sarebbe accaduto, eppure le cose erano diverse da come se le aspettava. Fu lo stesso Hades a convocarlo in segreto e indicargli che il momento era giunto. Lui lo sapeva, ne era consapevole. Avrebbe combattuto e cercato di preservare l'ordine delle cose.

    ARMAQuadro-01
    Note del Master:Arrivato nell'Olimpo, troverai solo morte e distruzione in ogni dove. Trovi Angeli e divinità morte, le quali emettono una strana aura malefica ma non saranno loro il tuo obbiettivo. Quello che ti viene richiesto è fare una One Post dove dovrai affrontare uno dei vessilli del Male: la Guerra! Gestisci te la cosa come meglio credi, insomma come se fosse una normalissima WOA.








    Ed infine il grande giorno arrivo!
    Il giorno in cui la speranza venne spazzata via dall'umanità stessa. Le tenebre avvolsero avvolsero l'olimpo trasformando il simbolo del potere degli Dei nella loro stessa prigione, dove il male banchettava con le anime degli Olimpici. Entità oscure e tetre, come mai se n'erano viste dall'alba dei tempi: giunsero nei templi, privandoli di ogni ogni cosa, di ogni potere, di ogni loro emozione. Corpi senza vita, involucri privi d'anima, riempiti dalle larve della disperazione, venivano riportati indietro come semplici marionette asservite ad un signore che non esiste, ad un'entità che non è un'entità, ad un qualcosa che non si può combattere.

    È la fine per tutti noi!

    Un varco si aprì proprio nel laboratorio di Gabriel, mentre il capo dei Black Saint stava lavorando ad uno dei suoi esperimenti. Un uomo, anzi un Dio era apparso innanzi all'uomo. Un Dio in procinto di morte che sofferente comunicava l'imminente catastrofe. Qualcosa di immensamente grande e potente stava per distruggere ogni cosa, per cancellare gli umani dalla faccia della terra e ben presto anche per lui sarebbe stato così. Poteva percepire qualcosa che stava alterando per sempre anche il Bosone mutandone l'essenza e infettandolo, non v'era tempo da perdere.

    Un varco avrebbe permesso a Gabriel di accedere all'Olimpo e il sangue di Ermes avrebbe consentito al Black Saint di non morire nel passaggio per la via degli Dei. Buffo che la sopravvivenza del suo impero, fosse correlata alla sopravvivenza del regno degli Dei.

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    Note del Master:Arrivato nell'Olimpo, troverai solo morte e distruzione in ogni dove. Trovi Angeli e divinità morte, le quali emettono una strana aura malefica ma non saranno loro il tuo obbiettivo. Quello che ti viene richiesto è fare una One Post dove dovrai affrontare uno dei vessilli del Male: la Miseria! Gestisci te la cosa come meglio credi, insomma come se fosse una normalissima WOA.

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    Edited by ~S i x ter - 16/9/2019, 22:21
     
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    ARMAGEDDON: OLIMPO
    La Morte di Un Sentimento, Daya contro Astheneia

      


    I. The Day Is Coming
    La fanciulla si alzò spaventata sullo scranno in cui dormiva, era madida di sudore e la sua mente si era liberata da pochi istanti da un terribile incubo; Olimpo, 'antica dimora degli dei, una fitta tenebra l'aveva avvolto tutto senza preavviso ed ogni creatura presente periva impotente di fronte all'annientamento. Nel sogno lei non era veramente lì eppure vide il suo antico tempio avvolto anch'esso dalle tenebre e tutti gli attendenti e servitori al suo interno dilaniati da un nemico sconosciuto e invisibile. Quando il tempio prese a vibrare come in procinto di crollare allora e solo allora ella si risvegliò urlando nella quiete della sua stanza. Alisia si mise in piedi dopo qualche istante, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con il dorso della mancina. Fissò per un po i bianchi piedi privi di calzari come rapita da un pensiero, da una certezza.

    "Sento l'oscurità avanzare più forte che mai..."

    Sospirando cercò di afferrare lo scettro dorato che compagno silenzioso segnava ogni suo passo da quando era giunta al Santuario anni prima. Inaspettatamente la mano mancò di poco il manico facendolo cadere pesantemente a terra, priva di appoggio pose comunque i piedi a terra ma un attimo dopo anch'essa fece compagnia allo scettro sul freddo pavimento. Si mise carponi e un colpo di tosse squarciò i polmoni facendole dolere il petto, sangue scarlatto sporcò il marmo sotto di lei e una profonda prostrazione aggredì il suo corpo ed il suo cosmo.

    "cough cough... non può essere... padre! cosa sta???"

    Non riuscì a terminare l'invocazione a Zeus, altra tosse altro sangue. Il pensiero andò all'unica persona che potesse davvero aiutarla, cercò di formulare una frase ma solo una strascicata parola fu inviata alla mente di questi.

    II. The Calling
    Meditazione. Dicono che a volte aiuti a concentrare la propria mente e ritrovare la calma grazie al distacco dalle emozioni superficiali; normalmente era vero infatti, soprattutto per il cavaliere della Sesta Casa il cui corpo immobile sedeva su di uno scranno d'oro da più di due giorni, la nella posizione del Loto sembrava ormai una statua ornata di dorate vestigia con più nulla di vivente. Immobile, imperturbabile, questa l'apparenza del suo corpo materiale; eppure il suo cosmo non aveva smesso di accumularsi e concentrarsi come in vista di una qualche tenzone ancora non del tutto rivelata. E tanto la sua mente si era placata, distaccato dal corpo aveva sondato in lungo e in largo diversi piani d'esistenza in cerca di una risposta che tardava testardamente ad arrivare. Una voce conosciuta assurdamente debole lo riportò alla realtà del proprio corpo distogliendolo dalla profonda trance raggiunta... una semplice parola che detta da quella persona risuonò inverosimilmente allarmante.

    °A..a...aaaiu..utoo°

    Il cavaliere tornò di colpo nel proprio corpo, percepì nuovamente le membra rinfrancate da quel forzato riposo a cui le aveva indotte, percepì l'aria fresca nei polmoni ad ogni inspirazione e l'aria calda che ne fuoriusciva con l'espirazione.

    Si mise in piedi di colpo, nel farlo il mantello raccolto si srotolò rendendo ancora più maestoso il suo aspetto, gli occhi sempre socchiusi poiché per comprendere quanto stava accadendo di certo non necessitava della vista.

    "Il gong!!! il gong della battaglia è suonato!"

    Indossò l'elmo, strano invero non lo faceva quasi mai, eppure quella volta sentì che ogni difesa era utile, ogni protezione indispensabile. Superò le sei case che lo separavano da colei che aveva inviato tale richiesta, raggiungendo la stanza dietro la XIII casa proprio innanzi alla grande statua ed il segreto che celava.

    "Athena! cosa le sta accadendo???"

    La giovane dea era seduta per terra, sporca del proprio sangue che sembrava cercare di fuoriuscire a forza dal suo corpo. Daya si chinò per aiutarla e senza accorgersene le sue dorate vestigia si macchiarono del divino Ichor della dea. La fanciulla sorrise ma non rispose alla logica domanda, allungò un braccio in direzione della porta che conduceva alla statua e profondendo in tal gesto tutto il cosmo rimastole aprì una sorta di portale azzurro vibrante di energia.

    "Daya ... ti prego fai qualcosa prima che sia troppo tardi... il mio tempio, cercalo"

    Annuendo l'uomo raccolse la fanciulla adagiandola poi sul suo scranno, ormai priva di conoscenza.

    "è dunque arrivato anche per me il giro finale del Destino?"

    Sospirò appoggiando la proprio mano su quelle intrecciate di lei; respirava a fatica ma respirava, grazie forse al divino cosmo che nonostante tutto ancora la sorreggeva. Fu in quel momento che la fedele Nausicaä arrivò tutta trafelata; anche lei doveva aver presagito qualcosa.

    "Alisia... avrei voluto evitarti tutto questo..."

    "Cosa è accaduto? Grande Athena! Non è possibile! Lei è..."

    Non riuscì a terminare la frase per paura delle implicazioni che portava.

    "Non è morta, ma non posso garantire che non accada"

    "Cosa vuoi dire? E cos'è quello? Sembra una porta spalancata in mezzo al nulla"

    "È un portale aperto da Alisia per me. Indica dove sono problema e nemico"

    "Non vorrai andarci da solo???"

    Daya annuì col capo, poi accarezzò il volto della piccola dea ripulendolo dal sangue. Rimase in silenzio quindi stringendo le sue mani, raggiunte poco dopo da quelle di Nausicaä. I tre rimasero così uniti per un tempo indefinito, quasi che l'universo si fosse fermato assieme a loro; sembravano due genitori intenti a vegliare sulla loro bambina. Fu la donna a rompere il silenzio dando voce alla propria preoccupazione.

    "Daya per favore, non andare a morire invano... ti supplico"

    L'uomo si allontanò voltandosi un'ultima volta verso l'ancella, dopo tutti quegli anni era divenuta la sua unica famiglia.

    "Qualcosa o qualcuno ha colpito l'Olimpo e gli dei. Athena sta male per questo motivo... non vado a morire inutilmente amica mia"

    Le sorrise per poi voltarsi e fissare quello strano strappo della realtà, strappo che la dea aveva creato per lui.

    "...vado a farlo smettere"

    Imboccò il portale senza nemmeno avere la sicurezza di dove l'avrebbe portato.

    III. Falling Sky
    Desolazione. Devastazione. Corruzione. Quello che un tempo era l'Olimpo ora era solo... morte. Ovunque carcasse annerite e mezze putrefatte, gli immortali in codeste condizioni! Vi era una sottile ironia nello scenario che si palesò innanzi ai suoi occhi, era però difficile ridere in tale situazione.

    Camminò a lungo fra le fila di morti, alcuni sembravano completamente distrutti, altri invece emanavano oltre al fetore un'aura malvagia che sembrava come volerli rianimare; il potere che li aveva sconfitti forse ora cercava di impossessarsi di loro? Non poteva perdere tempo con loro, doveva concentrarsi sull'obbiettivo affidatogli da un'Athena quasi morente. Non era difficile farsi strada in quel pandemonio, vi era ancora una traccia residua del cosmo della dea, bastava seguirla. Mentre camminava in mezzo ai templi diroccati una pioggia di rossi petali cadeva continuamente dal cielo, come se fiori divini stessero morendo uno ad uno perdendo le loro corolle. Ne raccolse uno con la mano, era profumato e fragile, eppure nonostante tutto il fetore di quell'oscurità vomitata dal nulla sovrastava anche il loro profumo.

    °incredibile... tanta purezza insozzata in tal modo°

    Sospirando proseguì la propria cerca non potendo soffermarsi troppo in un punto; fra i corpi dei caduti infatti qualcosa di anomalo si stava addensando e muovendo, segnale infausto per nulla desiderato. Nel coprire la distanza che lo separava dalla flebile traccia cosmica di Athena fu il pensiero invero non irrazionale di quanto fragile e limitato fosse il divino, rappresentato nel concetto e nella forma dall'Olimpo che ora calpestava. Si erano forse gli dei rivelati migliori degli uomini? La tenebra più oscura li aveva attaccati e vinti, probabilmente quasi senza sforzo vista l'assenza fra i corpi degli olimpici di una qualsivoglia traccia di nemici. Daya era sempre più perplesso, sopratutto da quando aveva accarezzato in una occasione il Nono ed ultimo Senso, appannaggio delle divinità. Fu il vecchio amico Gazka di Aries a spiegargli come giungere ad esso, spiegazione semplice poiché già pronto da tempo a simile rivelazione. L'uomo più vicino agli Dei veniva chiamato sin dalla tenera età di cinque anni quando, a differenza dei propri coetanei, suoi compagni di discussione furono proprio gli dei ed il Maestro stesso. Il più vicino agli dei già... da quando aveva realmente e fisicamente sfiorato il divino non se ne era mai sentito così distante invece! Un paradosso che avrebbe schiacciato altri, uno spunto per riflettere e ponderare per il cavaliere di Virgo conosciuto col nome di Daya.

    "perché nonostante il traguardo raggiunto mi sento ancora così incompleto?"

    Fu strano farsi quella domanda ad alta voce, complice forse il senso di vuoto e abbandono di quel luogo. Con l'occhio della mente il giovane indiano provò ad immaginarsi come si sarebbe presentato l'Olimpo solo pochi giorni prima; ricordò la dolce quiete dell'Empireo ove Tiresia lo guidò alla comprensione ultima del proprio cosmo, probabilmente dovevano essere simili sotto molti aspetti. Sentiva un'inquietudine salire nel proprio animo, non aveva paura, difficilmente aveva mai provato simile sentimento nemmeno in punto di morte. I molti oracoli avuti sulla propria fine gli tornarono di colpo alla memoria facendolo riflettere su quanto stava accadendo; non era soltanto la devastazione attorno che lo sconcertava, era la fine di un tempo iniziato all'alba del Mito stesso. Una gerarchia celeste di millenni spazzata via in un attimo, quale sorta sarebbe toccata a lui, semplice mortale in un gioco troppo grande per essere anche solo compreso in parte? Scrollò il capo come per sfuggire a tale pensiero, non si poteva permettere di morire in un momento simile! Troppe persone dipendevano ancora da lui. Fu strappato da tale pensiero nell'istante in cui percepì più palpabile l'ostilità nascosta nella moria attorno.

    °alla fine vengono fuori°

    Alcune creature orribilmente sfigurate e gonfie di pus e nero liquame iniziò a muoversi attirato dall'immacolato cosmo del cavaliere, non andava bene per niente. Non sapeva se ad attenderlo al tempio vi sarebbe stata battaglia o meno, di certo non voleva sprecare energie con una simile accozzaglia mostruosa.

    "Desolato ma non ho tempo da perdere con voi!"

    Con uno scatto raggiunse il più vicino applicando una mano ove era la bocca dello stomaco; una piccola esplosione di cosmo lo fece volare via per decine di metri allontanandolo da Daya. Altri si strinsero attorno a lui ma riuscì a divincolarsi e fuggire: non aveva tempo, non aveva certezze e certamente non aveva cosmo da sprecare! La lunga corsa infine fu ripagata ed il tempio di Athena trovato. Il tempio o ciò che ne rimaneva.

    IV. A Meeting With Fate
    Tutto era devastato, distorto come se fosse stato preso dall'incubo più nero. Quel poco che restava del cosmo della dea pulsava flebilmente mentre un'oscurità ammorbante allungava i suoi tentacoli su ogni pietra di cui era composto. Corpi martoriati ovunque, diversamente da altre zone qui erano quasi decomposti imputriditi da chissà quale morbo che si repentinamente li aveva aggrediti e uccisi. Daya dovette mettersi la mano innanzi al viso per non permettere al proprio stomaco di svuotarsi su quei gradini; era terribile e più avanzava all'interno del tempio e più il fetore aumentava. Arrivò infine nella stanza centrale, vi erano due statue di Athena con l'emblema di Nike fatte a pezzi... sul trono posto in mezzo ad esse vi era una figura nera e sinistra.

    °quale orribile creatura è mai questa?°

    Come in risposta a questo pensiero l'essere si alzò lentamente dal trono alzando la mancina artigliata e generando da essa una sorta di fuoco fatuo azzurro.

    "ασθένεια"

    Disse con voce cavernosa ed aliena. Sembrava una parola greca ma Daya non riuscì a comprendere bene, era difficile ascoltare quella voce come se ad emetterla non fossero state corde vocali adatte.

    "ασθένεια"

    Ripetè toccandosi poi il petto. Ed alla sua sinistra uno squarcio si aprì simile ad uno specchio, uno specchio che dava proprio all'interno della XIII casa del Santuario ove Athena priva di sensi lentamente periva, assistita da una desolata Nausicaä. L'essere indicò il corpo immobile di Alisia e poi indicò nuovamente se stesso, stavolta scandendo lentamente le lettere.

    "a... s... t... h... e... n... e... i... a"

    Astheneia, era questo dunque il suo nome? Questa la pronuncia esatta di ciò che inizialmente aveva enunciato? Probabile. Per quel che ne sapeva Daya di greco voleva dire malattia o qualcosa di simile.

    "Astheneia? vuoi dire malattia? E' questo che vuoi dire?"

    La creatura oscura fece alcuni passi in direzione di Daya, aveva un elmo con quattro rostri simili a corna ed il fetore in sua presenza era notevolmente aumentato. Indicò nuovamente il proprio petto.

    "m... a... l... a... t... t... i... a"

    Disse nella lingua corrente usata dal cavaliere. Poi fece scattare le braccia innanzi e dal suo corpo dipartirono due artigli lunghissimi fatti di carne nera imputridita e ossa affilate come rasoi. Daya fu colto di sorpresa e venne sbalzato via dalla violenza del colpo. Atterrò sulla scalinata che portava al tempio, ove era stato colpito nelle parti non protette dall'armatura le ferite avevano già della putrescenza come se la carne si fosse decomposta rapidamente. Sputò sangue sui gradini nel tentativo di rialzarsi, non l'aveva solo colpito fisicamente, per un istante gli era sembrato che oltre a muoversi nel piano fisico si fosse sdoppiato e mosso anche su quello eterico.

    "Dannazione... ci sono cascato come un novellino!"

    La rabbia montò nel cuore del cavaliere, non poteva permettersi distrazioni e cosa aveva appena fatto? Aveva fornito al nemico la possibilità di colpire per primo. Rimettendosi in piedi vide che la mostruosa creatura si stava avvicinando. Stavolta non si fece accogliere impreparato, evocando già una delle sue tecniche più potenti.

    Tenma.... Kofuku!!!

    La visione di morte apparve con la fanciulla che brandiva la tetra falce. Malattia avanzò implacabile apparentemente non toccata da quella potente manifestazione che aveva fatto tremare ben più di un nemico. Quando l'esplosione cosmica seguì il movimento della falce la creatura alzò la mano artigliata ed una bocca enorme dai denti marci iniziò a risucchiare tutta l'energia di Daya... poi con un rapido movimento gliela ributtò indietro trasformata. Il cavaliere ebbe appena il tempo di teletrasportarsi per togliersi dalla traiettoria dell'onda, andando alla destra del nemico e preparando un nuovo attacco.

    Concentrò rapidamente una sfera di cosmo fra i palmi delle mani e schiacciandola la fece esplodere proprio sotto i piedi del terribile nemico.

    °Assorbi questo!°

    La creatura fu colta di sorpresa e urlò come se stesse provando un grande dolore. Alcuni pezzi di carne putrida si staccarono e sgretolarono, ma la luce azzurra che animava i suoi occhi non sembrava dar segni di cedimento. Si girò verso Daya puntando il dito indice salmodiando qualcosa in una lingua talmente malvagia da far accapponare la pelle al santo.

    לּﮜﭸⱴ₥ῳﮜᴂ

    L'ombra generata dal braccio e dal dito corse rapidamente sul terreno verso l'obbiettivo, quando fu proprio sotto i piedi il terreno mutò forma e consistenza divenendo un crogiolo di mostruose bocche bavose dai denti e dalle carni putrescenti.


    A Daya sembrò di precipitare in un inferno di bocche per intere ere finché di colpo non si accorse di aver serrato gli occhi... riaprendoli la realtà tornò a prevalere, una realtà che lo vedeva precipitare da una grande altezza verso il tetto del tempio.

    °quando mi ha ingannato???°

    Incrociò le braccia innanzi al viso invocando il proprio potere psicocinetico per fermare o almeno rallentare la caduta. Nulla, nel farlo sentì come se una mano artigliata lo stesse trascinando giù a forza. Le ferite del primo attacco gli fecero male bruciando più dell'inferno, sentì come se una piaga cercasse di insinuarsi nel suo stesso corpo. Sentì le forze venir meno, affidandosi alla solidità della corazza e al proprio cosmo strinse i denti sperimentando l'impatto più doloroso della sua vita. Atterrò nel bel mezzo della sala interna fra macerie e sangue proprio mentre la creatura saettava verso di lui per afferrarlo. La lucidità tornò, non si dava certo ancora per vinto. Creò una moltitudine di immagini illusorie di se cercandovi riparo, caricando ognuna con cosmo e spirito per distogliere l'attenzione del nemico; sembrò funzionare quel tanto che bastò a Daya per riguadagnare posizione e distanza. Doveva fare in fretta e provare a saggiare le difese di quel periglioso avversario.



    Tenkū Haja Chimi Mōryō!



    Una spirale di grigi spiriti urlanti si levò da lui, non sperava che l'illusione colpisse in qualche modo Malattia, sperava solo che credendosi troppo sicuro di se non facesse caso all'effetto secondario di quella tecnica. Gli spiriti presero a vorticargli attorno ululando le loro promesse di morte, poi d'improvviso iniziarono a bramare le sue carni affondo però denti non materiali direttamente nella sua essenza eterica. Malattia rimase sconcertato che quelle illusioni potessero arrecargli tanto dolore, se non era completamente materiale allora per forza la sua essenza doveva essere di qualche altra natura. L'essere ululò nuovamente dal dolore, puntando quegli occhi innaturali e malefici su Daya. La forza del mostro sembrò come gonfiarsi di colpo, al solo contatto della sua aura nera perfino il marmo del pavimento iniziò a imputridire come se la roccia stessa potesse in qualche mondo lontano e alieno ammalarsi! Stavolta il cavaliere non si fece cogliere di sorpresa, concentrando il proprio cosmo e volontà generò quella barriera mistica che solo lui possedeva.



    KAAN!

    La più potente delle difese, la difesa che non conosceva debolezza. Nulla poteva entrare in essa poichè le fiamme del Garuda purificavano il male per proteggerne il detentore. Il colpo arrivò, nuovamente altri aculei ributtanti e provvisti di fameliche bocche zannute scattarono verso l'oggetto dell'odio di quel mostro. Ma la difesa era solida poichè in essa Daya vi aveva concentrato tutto il suo potere! L'attacco però non si placò con una semplice ondata di colpi ma proseguì e proseguì finché anche il Kaan iniziò a cedere incrinandosi. Inspirando profondamente il cavaliere richiamò il suono mantrico universale, l'OM, schiacciando e comprimendo il proprio potere dentro di se fino a farlo divenire straboccante. Quando fu quasi sul punto di superare il limite dei Mortali abbandonò la difesa ormai compromessa per far esplodere nuovamente il Tenma Kofuku contro l'avversario. Questi cercò di assorbire l'onda cosmica ma dopo un istante o due la bocca e la mano che la brandiva finì per incenerirsi a contatto di un cosmo che si era avvicinato pericolosamente al divino.

    "Anf anf... dannazione... anf quanto ci metti a morire?!?"

    I due si studiarono un poco, il cavaliere ferito e sanguinante in più punti, con qualche costola rotta e sicuramente il corpo debilitato; l'altro un mostro oscuro senza più un braccio e con lo sguardo carico di odio e dolore.

    "la... malattia... non... muore... non puoi... uccidere... la malattia"

    Dicendo ciò alzò il braccio ancora buono riaprendo quello squarcio che dava nelle stanze di Athena.

    "la malattia... può... uccidere"

    A quelle parole il suo dito uncinato puntò verso la figura di Nausicaä china sulla giovane dea. Subito non accadde nulla, poi iniziò a muoversi in modo strano, quasi avesse problemi di equilibrio. Daya cercò di muoversi ma ad una rapida occhiata del mostro le sue ferite ripresero a dolere e il corpo martoriato dall'interno mancò di forza e andò giù con un ginocchio.

    "Urgh! cosa stai facendo??? cosa le stai facendo?!?!?"

    La cosa ghignò malignamente mentre la giovane donna apparentemente al sicuro nel Santuario prese ad affannarsi. Quando alzò lo sguardo verso l'alto il suo volto era completamente piagato e le sue carni dal rosa passarono al viola in un attimo; strabuzzò gli occhi un istante poi roteandoli cadde a terra. Daya cadde in ginocchio in quel momento; fra le tante perdite, fra le cocenti sconfitte che potesse aver contemplato e preventivato quella non era mai stata presa in considerazione. Perché Nausicaä? Era solo un normale essere umano, non aveva colpe non aveva mai ferito o ucciso nessuno. Lacrime dolorose iniziarono a rigare il volto del cavaliere. Non provò nulla dentro di se. Nulla. Era vuoto, prosciugato, freddo. Tale immobilità di pensieri ed emozioni durò qualche istante... poi iniziò lentamente a scivolare verso il più cupo e cieco dolore.

    "Perché lei?"

    Era come se si fosse rotto qualcosa dentro il suo animo. Malattia iniziò a ridere se quella poteva chiamarsi risata, fissando il nemico considerato ormai inerme.

    "Perché lei?"

    Si rimise in piedi barcollante. Gli occhi erano come ciechi, vedevano solo ripetutamente quella scena assurda, la vita di un'amica spezzata in quell'attimo. Non si erano potuti dire addio, nessuno l'aveva potuta confortare durante l'ultimo respiro. Vicino a lei una dea che poteva compiere miracoli e quella dea era sul punto di perire a causa dello stesso mostro che ora si avvicinava lentamente a Daya.

    "Perché lei?"

    La vista tornò di colpo e con la vista un ricordo. Le parole di un amico, la scoperta di un potere ancora instabile in lui. Nyoraizōshiki. Nono Senso. La coscienza ultima da raggiungere.

    "Perché lei?? perché lei????"

    Ripeté mentre il suo spirito si innalzava con rabbioso dolore verso quell'ultima meta.

    "Perché lei? perché lei?? perché lei??? perché lei???? perché lei?!?!?!?!?!?!??!?"

    Era divenuto una specie di mantra; quando Malattia fu abbastanza vicino per portare il colpo di grazia si compì il tutto.
    Fu come se un fiore fosse sbocciato di colpo, simile ad un loto che nasce nel pantano qualcosa in mezzo a quel putridume stava ora schiudendosi. Daya afferrò la mano artigliata e con uno strattone rabbioso lo tirò a se per poi colpirlo, forse il primo pugno da lui mai dato durante tutta la sua vita. Il pugno calò in quella che poteva essere la bocca dello stomaco, per poi aprirsi di colpo e lanciare dal palmo un getto di cosmo di inaudita ferocia. Malattia venne trapassato dal quell'attacco impensabile e sbalzato via per diversi metri; gli occhi del cavaliere d'oro brillavano di luce propria e sembrava che in essi vi si stesse riflettendo un intero Universo! Il nono senso era nuovamente sbocciato in lui ma stavolta la sua aura era rossa come rossa era la sua rabbia.

    "Ti schiaccerò come il più miserabile degli insetti"

    Con un filo di voce sussurrò la parola che annunciava la sua prossima mossa.

    Malattia si rialzò sbavante e urlante con un foro dolorosissimo al centro del proprio corpo. Daya raccolse le mani innanzi a se e prese a concentrare potere salmodiando una litania sconosciuta.

    Iti me iti me iti me iti me nime nime nime nime nime
    ruhe ruhe ruhe ruhe stuhe stuhe stuhe stuhe stuhe svāhā


    Attorno a Malattia comparvero all'improvviso dieci figure spirituali che iniziarono a tessere attorno a lui lunghe funi di seta rossa. Erano queste le dieci rakshasi, le figlie del demone richiamate al loro dover di protettrici del Buddha; le essenze spirituali presero a comprimere e costringere l'orrido figuro finché enorme dall'alto non comparì la madre di questi demoni serventi. In tutta la sua possanza Hariti sovrastò Malattia; la dunamis rese tali apparizioni così potenti e realistiche da assoggettare anche quella creatura che aveva fatto scempio dell'Olimpo. Urlò Malattia, urlò nel non capire cosa stesse accadendo. Perché quell'umano, quel terrestre stava riuscendo a metterlo in difficoltà? Gli Olimpici non avevano opposto simile resistenza. Era ora lui, un essere materiale nato sotto la luce delle stelle e per questo inferiore, in grado di... impossibile!

    "COME... COME PUOI... TU!!!!"

    Daya espirò pronto a chiudere la mortale tecnica.

    "Sparisci dalla mia vista...ORA!!!!!!!!!"

    Hariti si riversò su Malattia assieme alle figlie, mutando in una pura colonna di cosmo portato al massimo livello possibile.

    V. The Sad Goodbye
    Uno zoppicante cavaliere, coperto di sangue per le ferite causate dal nemico e dall'aver sollecitato fino al limite il proprio corpo con un potere troppo grande, cadde oltre il portale ancora aperto. Forse per volontà di Athena, forse per semplice provvidenza questi si chiuse in quel momento tagliando nuovamente ogni collegamento con quella realtà distorta e mortifera. Daya era sul punto di svenire, si avvicinò allo scranno della dea, seppur ancora incosciente sembrava avere il respiro più regolare ed il colorito stava lentamente tornando; l'aver liberato il suo divino tempio dagli influssi di Malattia evidentemente aveva salvato la dea. Lo sguardo inevitabilmente cadde sul corpo senza vita di Nausicaä; zoppicando Daya le si avvicinò reggendosi un braccio che doveva essersi spezzato durante lo scontro ma che solo ora reclamava l'attenzione del suo proprietario.

    "Amica mia"

    Cadde in ginocchio innanzi a lei, il corpo martoriato da piaghe che ormai lo avevano essiccato e reso simile ad un mummia. La Guerra era arrivata, il buio era calato. Malattia e morte avevano reclamato il loro premio. Quel giorno Daya aveva sconfitto il nemico più potente che avesse mai incontrato, quel giorno il suo cosmo aveva brillato di una luce rossa abbagliante e violenta permettendo un vero miracolo.

    "Nausicaä"

    Sentir risuonare quel nome seppur dalla propria bocca spezzò infine il suo spirito. Abbracciato a quel corpo senza vita pianse fino a consumarsi gli occhi, fino a stillare vermiglie lacrime per l'unico dolore a cui una vita intera di sacrifici e meditazione non l'avevano invero preparato.

    NON AVERE NULLA
    SE INCONTRI IL BUDDHA UCCIDILO
    NON AVERE LEGAMI
    NON ESSERE SCHIAVO DI NESSUNO


    Discorsi facili quando ci si tiene a debita distanza dai sentimenti umani. Ma questo forse era il minore dei problemi, dopotutto il mondo intero sarebbe cambiato radicalmente. Fulmini e saette già ora imperversavano in un cielo innaturalmente oscuro ed inquieto; il Santuario sembrava uscito indenne dalla cosa ma era troppo presto per dirlo, la XIIII casa era lontana da tutto, lontana dai confini periferici e forse Daya non poteva o non voleva udire i rumori di battaglia e le urla nella notte più nera della storia. Il Mondo infine sarebbe andato rapidamente verso il declino; con tutto il loro potere, con tutto il loro coraggio i saint di Athena si sarebbero ritrovati innanzi al loro più grande fallimento... fallimento nel proteggere l'umanità da un nemico sconosciuto e giunto inaspettatamente, in mezzo a millenarie guerre sacre che in paragone poi sarebbero sembrate solo delle volgari scaramucce.

    VI. Epilogue
    Infine venne il giorno in cui un Uomo già elevato sopra l'Umanità consolidò maggiormente la propria vicinanza con gli Immortali. Quel giorno in cui il suo cosmo abbracciò totalmente la vetta più alta di potere rendendolo quasi divino, ecco quello fu anche il giorno in cui per la prima volta Egli dovette fare i conti con la dolorosa e fragile Natura Umana.

    E Intanto tutto attorno e dentro allo stesso Santuario la Nera Notte calava assieme al Grande Inverno del Mondo.



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    ARMAGEDDON: OLIMPO

      


    «Papà devi andare vero?» chiese Esmeralda quasi con un nodo in gola mentre fissava Lelouch sdraiato sul divano della loro nuova casa. Lui si girò e si abbracciò la sua bambina seduta di fianco a lui – che stava quasi per mettersi a piangere. La stringeva forte a se, come se non la volesse far andare via, anche se quello che doveva andare era proprio lui.

    «Non temera piccola mia» le sussurò nell'orecchio «non morirò, ne permetterò che nessuna persona in questo mondo muoia; in fondo siamo tornati indietro per riunire la nostra famigliola e per permettere alla nostra gente di poter sperare, di poter vivere un futuro che sicuramente sarà tenebroso ma nel quale la fiamma della speranza – che noi accendemmo tanti anni fa – non si possa spegnere»

    Era sereno, sicuro delle sue scelte e determinato più che mai a dare il suo contributo, esattamente come avrebbero fatto tutti i suoi amici. Essere un Titano non lo rendeva diverso dagli uomini e quando parlava di difendere tutti parlava sia delle popolazioni che abitavano il Labirinto, sia di coloro che vivevano sulla terra. Non vi era alcuna differenza: il suo compito era proteggere tutti quanti, indipendentemente dalle proprie origini, dal proprio credo: avrebbe irradiato ogni essere vivente con la sua Dunamis. Questo era il destino del sole, dispensare calore e affetto a tutti in maniera indiscriminata. Si staccò leggermente da Esmeralda e stringendole le mani le disse alcune parole prima di andare «Kyros difenderà il Grande Tempio, tua madre Eleuteria il Jamir, te il Labirinto e il Nonno cercherà di proteggere ogni uomo di questo mondo» si fermò per un istante «A me tocca raggiungere l'Olimpo ed è ciò che farò».

    La loro era una grande famiglia, un gruppo di persone che da sempre combattevano per il bene di questo mondo, non aveva alcuna importanza sotto che forma lo facevano, gli ideali che li sorreggevano erano sempre gli stessi. Lentamente le mani di lui si staccarono da quelli di lei – che sforzandosi – gli sorrise asciugandosi le lacrime.

    «Vedi di tornare, la Mamma non te lo perdonerebbe questa volta. Ora vai!»

    Esmeralda riuscì a strappare un sorriso a Lelouch che con la sua armatura color dell'Ebano si accingeva ad affrontare la sua missione, eppure la sua mente vagava lontana. Non riusciva in alcun modo a non pensare ad Eleuteria, la madre dei suoi figli e la compagna che non aveva mai compreso fino in fondo. Lo aveva fatto nuovamente, era rientrato nella sua vita come un uragano, creando caos e rompendo ogni equilibrio: questo era Lelouch. Anche se questa volta le cose erano diverse, lui era diverso. Non combatteva più per se stesso ma lo faceva per la sua famiglia, per dare un futuro ai suoi figli e anche per la sua compagna.

    «Accompagni Eleuteria, accompagnami in questa ultima sanguinosa battaglia»

    Desiderava poterla riabbracciare quando tutto sarebbe finito, o all'inizio della fine del Mondo ma in fondo era preparato al disastro, forse più di chiunque altro sapeva a cosa andava in contro anche se era consapevole del fatto che le cose erano diverse da come le aveva vissute lui. Naima era stata chiara: ogni realtà, ogni dimensione è un mondo a sé anche se certi effetti si ripercuotono in ogni realtà. Già, ogni realtà è un mondo a se, pensò Lelouch ed era anche una fortuna che fosse cosi. Loro dovevano vivere quell'esistenza, agire con la consapevolezze di cosa li attendeva e con la forza di poter cambiare un futuro che pareva inevitabile. Ma in fondo avevano la forza per cambiare quel destino, quella forza che era propria degli esseri umani e che aveva imparato a sfruttare durante tutta la sua esistenza: la forza di compiere il Miracolo e poco importava se quel giorno sarebbero stati sconfitti, si sarebbero rialzati come facevano ogni volta che qualcosa di più grande di loro li faceva cadere, senza mai inginocchiarsi.

    La Conoscenza Titanica aveva concesso a Lelouch una consapevolezza maggiore, divelto innumerevoli veli che occultavano la vista e la coscienza mostrandogli il mondo per cos'era in verità. Il combattimento fine a se stesso portava solo all'autodistruzione, lottare in nome di un ideale, per proteggere la propria gente, la propria famiglia e per salvaguardare gli affetti invece dava una forza inimmaginabile, ben più ampia di quella che gli era stata concessa dal suo Ichor o dalla sua Dunamis. Si chiedeva se il suo rivale di sempre, ovvero Gabriel, avesse realmente compreso tutto ciò. Ma non c'era tempo per queste cose, la via degli Dei era stata aperta e lui era pronto per ascendere all'Olimpo. Vide l'immensità di quel luogo, quel Paradiso che gli Olimpici s'erano costruiti per difendersi da un'eventuale rivolta dei loro simili. Un luogo che li aveva tenuti al sicuro per millenni ma che ora rivelava tutta la sua inconsistenza. L'odio e il dolore aveva raggiunto anche quel luogo e lui lo poteva percepire semplicemente dall'aria, dalla tensione che aleggiava nel corridoio spazio-temporale che lo avrebbe condotto verso i cieli superiori.

    Si guardò indietro e sorrise pensando alla lettera che Eleuteria avrebbe trovato sulla sua scrivania nella Biblioteca segreta ch'ella proteggeva. Si, era un gesto stupido ma sentiva di doverlo fare: un biglietto ed una rosa rossa, niente di più banale e tremendamente umano. Aprendo quella lettera Eleuteria avrebbe potuto leggere il suo messaggio.

    LettraLELLO2



    Ora però doveva andare: era arrivato il momento di incamminarsi verso l'Olimpo e ad attenderlo fuori dalla biblioteca vi era Gaz; lo osservava quasi con rassegnazione, mai si era visto quell'uomo più abbattuto. Lelouch da par suo indossava già la Soma ed era pronto ad andare incontro al suo destino ma vedeva nel quadre un turbamento profondo. Si avvicinò quasi per capire cosa lo rendesse cosi inquieto.

    «Non ti preoccupare Padre, questa volta non fallirò» gli disse cercando di rassicurarlo.
    «Certi eventi non si possono mutare, lo percepisco nel profondo del mio cuore» rispose con tristezza il vecchio dello Jamir «Hai fatto molto per questo mondo e farai ancora molto ma oggi è un giorno triste per me» si fermò per un istante «Perderò un figlio»

    Non capiva Lelouch, non riusciva a comprendere le parole di suo Padre «Hai cosi poca fiducia in me?» rispose il figlio «Non scarseggia la fiducia nei tuoi confronti ma so cosa dovrai affrontarlo e come dovrai affrontarlo. La conoscenza del Nono senso mi concede di cavalcare le correnti del tempo e vedere oltre quello che è la normale percezione e vi sono cose che solo un padre può capire», soffermandosi nuovamente «ma sono certo che tu mi puoi capire, ora va' che è tardi!»

    Dette quelle parole Gaz aprì il varco per la super-dimensione dove una guerra atroce e violenta lo attendeva. Non aggiunse una parola, tanto non avrebbe mai compreso appieno le parole del padre che evidentemente era a conoscenza di eventi che a lui gli erano oscuri. Era la seconda volta nella sua vita che doveva affrontare quel cataclisma, era pur vero che le condizioni erano differenti, che probabilmente questa volta sarebbe stato possibile fermare tutto ciò, eppure le parole del suo genitore avevano fatto sorgere dubbi e perplessità. Cosa voleva dire con quella frase? Ma non poteva avere esitazioni, nessuno più di lui doveva fare tutto il possibile per fermare quella spirale di oscurità e disperazione che si stava per abbattere anche su quella realtà. Il suo corpo sembrava venir attratto – in maniera inesorabile – da quella forza impressionante che lo stava portando nell'Olimpo, in quel luogo che gli 'Dei' si erano costruiti per rendere inespugnabile il loro impero.

    «Il sogno di ogni Titano» disse con un filo di voce e senza dubbio ciò era vero. La sua conoscenza Titanica lo portava a mal sopportare gli Dei, dato che ne conosceva la natura e sapeva bene che loro erano tutto tranne che divinità. Esseri viventi che posseggono un potere cosmico elevato, questo si ma ciò non li rendeva Dei. Ma soprattutto, il loro impero nato dall'ignoranza e dalla repressione era contro ogni suo ideale. La conoscenza, penso Lelouch, non è mai un male. Di questo ne era convinto e tutt'ora era convinto che tutti dovessero beneficiarne, senza alcuna discriminazione.

    Ma una volta giunto nell'Olimpo la scena che gli si parò innanzi fece quasi vibrare la sua stessa essenza. Non vi era traccia di un Impero radioso e sfarzoso come narravano gli uomini ma intorno a lui vi era solo morte e disperazione. Poteva sentire nell'aria quell'oscurità che aveva imparato a conoscere piuttosto bene durante i suoi trascorsi nell'altra realtà; ben presto non fu più solo una sensazione ma divenne realtà. Le tenebre e strani rampicanti neri coprivano ogni tempio divino e centinaia di angeli privi di vita facevano da pavimento a quello scenario che definire raccapricciante era un eufemismo. Era come se un folle, pieno d'ira e di rabbia avesse fatto mattanza di ogni cosa, trucidando e sterminando quegli dei tanto altezzosi e sicuri di se. Poteva sentire il respiro di quel demone che avvolgeva ogni cosa e cercava di portare avanti il suo folle piano, il suo sangue che ribolliva e il corpo che agiva istintivamente. Quella era una sensazione che lui – un tempo – aveva provato innumerevoli volte.

    «Guerra» ed una risata malefica parve rispondergli.
    «Può essere solo lui» ma una voce femminile e morente gli rispose «esattamente, si tratta di guerra». Ci mise qualche istante a comprendere da dove provenisse quella voce, quando tra le centinaia di corpi ammassati una donna sembrava voler emergere. Si avvicinò e poté riconoscere il volto di quella donna: si trattava di Artemide. La dea era stata tranciata di netto e i corpo imbrattato di sangue sembrava esser stato colpito dalla peste: macchie nere e strane escrescenze tappezzavano il corpo – un tempo – divino.

    «Non c'è nulla che puoi fare» continuò ormai sul punto di morire «Non puoi combattere Guerra o diventerai te stesso Guerra» ma il volto di Iperione fissava quasi con disprezzo la Divinità. «Dovrei lasciarvi al vostro destino – ormai segnato – per quanto avete fatto. Eppure sono qua, non per salvaguardare il vostro impero ma per impedire che questo mondo cada nella disperazione più profonda. Vi era un'alternativa alla guerra fratricida ma voi non lo avete mai compreso, preoccupandovi di salvaguardare solo il vostro impero e privando i vostri fratelli della vita eterna»

    Una lama di vento partì dal suo braccio destro, impattando in tal modo sul corpo esanime della Dea. Non voleva sentire più una parola. Ma ben presto si rese conto che nelle parole di Artemide vi era nascosta una grande verità. Combattere contro quell'emissario voleva dire diventare l'emissario stesso. La Gurthang venne estratta e mano a mano che avanzava uccideva sempre più entità informi che cercavano di assalirlo ma ben presto si ritrovò a percepire che il suo cosmo stava mutando. Più uccideva e più il suo stesso Ichor veniva infettato e poco potevano i suoi poteri rigenerativi: di questo passo sarebbe morto, o ancora peggio diventato parte di quell'entità oscura.
    «Come era prevedibile» disse una voce non dissimile dalla sua ma Iperione non ebbe nemmeno il tempo di reagire o dire qualcosa che un'energia scarlatta lo colpì, non una volta ma ben quattordici volte. Conosceva quella tecnica, conosceva quel cosmo, conosceva quell'uomo. In ginocchio Iperione fissava Lelouch, non se stesso ma quello del presente.

    «Ma cosa diamine ti salta in mente» cercò di dire il Titano.«Farò quello che tu non sei in grado di fare. Guardati Lelouch, non ti sei nemmeno reso conto della mia presenza, non ti sei accorto che ti seguo da quanto sei giunto. Credi davvero di poter affrontare guerra?»

    Non gli diede il tempo di parlare: lo zittì sferrandogli un calcio allo sterno, facendolo in tal modo rotolare a terra. «Ti seguo da quando sei giunto mio caro me stesso» continuò con fare beffardo «Ma non sono qui per te, non sono qui per ucciderti, se lo avessi voluto saresti già cadavere.» Dicendo quelle parole il suo cosmo – più violento che mai – cominciò ad espandersi e con una violenza inaudita incominciò a combattere. Le movenze del Drago erano rapide ed imprevedibili, uno dopo l'altro ogni avversario che gli si parava innanzi veniva eliminato e trucidato con una violenza senza pari. Quelli che un tempo erano Angeli o Dei, al suo passaggio esplodevano o venivano lacerati senza alcuna pietà.

    «Credi davvero che io mi sia allontanato per paura dei miei doveri?» disse ammazzando altri demoni «No, caro Titano: ho compreso che la guerra poteva essere uccisa solo con la guerra». Ma Iperione, cercando di raccogliere le forze gli urlò contro «Così ti trasformerai, diventando parte di quest'oscurità».

    Ma Lelouch non si fermò. «Fermati Lelouch» gridò nuovamente il Titano. Ma anche questa volta non ebbe alcuna risposta. Lentamente il corpo del Drago, matido di sangue si stava trasformando assumendo una forma quasi spettrale, eppure lui non si fermava.

    «Cosa diamine pensi di ottenere?» ma ancora niente. Il Titano cercava di rialzarsi, usando la Gurthang come appoggio ma era tutto vano, il potere di Lelouch era troppo grande, troppo per poter essere contrastato. A quel punto, con quasi le lacrime agli occhi «Non ci pensi ai tuoi figli, alla tua compagna?»

    Ma quelle frasi non fecero altro che ottenere l'effetto contrario. Lelouch cominciò a rincarare la dose, ad uccidere con ancora più violenza, come se volesse accelerare quel processo – irreversibile – di mutazione. Il Drago in verità, agendo in quel modo stava proprio pensando a loro: ogni colpo che sferrava era per proteggere le persone a cui teneva. Lui da sempre aveva solo un modo di dimostrare i propri sentimenti e lo faceva tramite la guerra. Conscio che in nessun modo sarebbe stato di aiuto aveva ordito un piano folle e assurdo: diventare egli stesso Guerra. Più combatteva e più sentiva il suo cosmo corrompersi e mutare alla radice. Imbrattato di sangue e con le lacrime che scendevano rapide sulle sue gote lo Scorpione Dorato combatteva e facendolo pensava ai suoi cari a tutte le persone care che avevano perso la vita e a tutti coloro che sarebbero diventati esseri privi di anima e raziocinio.

    No, lui non lo poteva permettere, ne poteva permettere che Eleuteria soffrisse ancora. L'avrebbe difesa a modo suo, come solo lui sapeva fare. In tutto questo tempo lontano da casa non c'era stato un solo giorno in cui non aveva pensato a lei ma come al solito aveva deciso per entrambi, allontanandosi dalla sua donna. Ancora una volta Lelouch la tenne lontana, allo scuro di ogni suo progetto, certo che questa fosse la scelta più giusta.

    «Quella è la tua vita Iperione» disse sofferente «non la mia. Io non ci sarò quando questo mondo rinascerà, non sono destinato a ciò. Io combatto, questo è l'unico modo in cui mi so esprimere mentre te sei diverso. Te devi illuminare questo mondo, mostrare a tutti le verità celate. E non permetterò ad un'anima vecchia come la tua ti rubarmi il mio avversario!»

    Solo ora Iperione comprese le azione del suo se stesso: stava cercando – ancora una volta – di proteggere le persone a lui cara, di permettere agli uomini di poter vivere e lui si sarebbe sacrificato per fare tutto ciò. Ampliò il suo cosmo e il suo Ichor agì, quasi libero del tutto dall'influsso di guerra, facendolo rigenerare. Si mosse rapidamente, cercando di raggiungere Lelouch ma il suo scatto venne fermato dall'aura del dragone che si ergeva – ormai vittorioso – su quel cumulo di cadaveri.

    «Perché? Perché lo hai fatto? C'era un'altra possibilità, era possibile convivere nello stesso mondo, evitare di farla soffrire ancora. Non avevi alcun diritto Lelouch, non lo avevi!»

    Ma il corpo ormai trasfigurato di Lelouch sembrò mutare assumendo fattezze non umane ma nemmeno demoniche: un drago, rosso come il sangue apparve al posto dell'uomo. «Ancora non capisci Titano. Tutto ciò era necessario, non vi era alcuna possibilità di scelta: Guerra non si era ancora palesato, non vi era un nemico da sconfiggere ma un Apostolo da nominare. Te non ne eri all'altezza ma io si»

    Poi riprendendo a parlare «Ad ogni modo ora va', torna nel tuo fottuto Labirinto e di a tua figlia di avercela fatta ma ricordati una cosa: solo combattendo contro di me e sconfiggendomi sarai in grado di utilizzare tutti i tuoi poteri. Ora non sei che l'ombra del Titano che dovresti essere. Quando sarai in grado di uccidermi vedrai le cose sotto un'ottica diversa e forse comprenderai le mie azioni»

    Dicendo quelle parole il Dragone della Guerra sbatté le sue ali volando sempre più in alto. Lelouch aveva fatto molto più di quanto ci si aspettasse da lui: non solo aveva sconfitto guerra ma ne aveva assorbito tutto il potere imprigionandolo nel suo corpo. Da par suo Iperione rimase fermo e immobile ad osservare il rossore delle sue ali sparire nei cieli superiori. Aveva perso, aveva fallito: non era riuscito a fermare la follia di Lelouch, impotente aveva visto il male entrare dentro di lui e corromperlo ma una cosa era certa: quella corruzione era differente da quella che aveva investito Gabriel. Se il Drago Nero era stato infettato dalla fame, il Drago Rosso dalla Guerra e forse – per un periodo di tempo limitato – sarebbe riuscito a controllarlo.

    «Ti ammazzerò Lelouch, te lo prometto su tutto ciò che ho di più caro al mondo»



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    ARMAGEDDON: OLIMPO

      


    Le particelle di cosmo fluttuavano nell'enorme stanza cupolare scolpita nelle viscere dell'isola della regina nera, mentre il cancro nero le guidava come un direttore d'orchestra, assemblando ipermolecole che si sarebbero formate da sole in un ambiente naturale nell'arco di miliardi di anni. Una sorta di secondo inizio, una ipervita che si basava su altre strutture complesse, passando dal carbonio agli atomi pesanti che l'uomo aveva creato e con il quale avrebbe lasciato la realtà contaminata una volta estintasi la specie.
    Mosse da nanometriche propaggini d'ombra le particelle si riconfiguravano secondo l'ordine stabilito da Gabriel stesso, avvolto dalla crepitante luce del bosone. In quell'attimo la sua vista scrutava la struttura quantistica della realtà, elevandolo a qualcosa che di discostava dal concetto nudo e crudo di divinità. Un puro e semplice creatore, un Maker, un concetto che nel multiverso ha significati differenti dal sedersi su di un trono e comandare le specie inferiori.
    Creazione fine a se stessa, l'esplorazione delle possibilità e delle capacità della materia stessa, comprendere i limiti della realtà e come è possibile aggirarli. Il drago nero non aveva veramente intenzione di cominciare a creare esseri viventi basati sul Lawrentio, era semplicemente interessato a scrutare in anteprima come sarebbe potuta essere la vita prima del termine dell'universo. L'idea che l'ipervita potesse comparire anche in questo giovane universo lo affascinava, entità che superano il concetto attuale di divino, esistenti nel cosmo e dalla massa superiore a quella di un buco nero, il loro atto respiratorio nutrito dai plasmi delle nebulose scuoterà l'intera struttura del tempo quantico, facendone parte come struttura integrante di questa sacca di realtà del macroverso.
    Fermò per un istante le mani, lasciando la singola molecola complessa creata a fluttuare tra le dita, e rabbrividì. Un riflesso causato non dalla paura ma dall'incapacità di poter ancora comprendere concetti tanto vasti, che esulano dai sistemi conoscitivi di uno scienziato come lui, che ha letteralmente disintegrato ogni struttura del proprio pensiero umano, per poter abbracciare quella sua scienza nera, irripetibile con altri mezzi che non fossero suoi. La SUA scienza, con formule e fattori creati appositamente, poiché vecchi concetti adatti a spiegare la normale realtà non erano adatti o semplicemente sufficienti, non gli permetteva di comprendere appieno l'enormità di qualcosa come lo stato di Ipervita.
    Non lo avrebbe potuto raggiungere, né avrebbero potuto farlo gli dei, e sinceramente non era uno dei suoi obiettivi.
    L'ipervita esulava dal comodo concetto lineare di tempo, faceva parte della struttura quantistica, e tuttavia non ne faceva parte allo stesso tempo. Una volta nata, era semplicemente immersa nel tempo stesso. Ciò rendeva la nascita dell'ipervita una formalità, poiché tecnicamente era già qui.
    Lo srotolarsi di questi pensieri nella sua testa assieme al litigare con un nucleo di elio che continuava a schizzare via dalla struttura ogni volta che cercava di comporla nel modo che gli serviva , gli stava facendo venire il mal di testa. Alla fine allargò le mani, spingendo via la micromassa cosmica avvolta a quella singola molecola incompleta, sospesa al centro della stanza. Se l'ipervita era necessaria all'universo, sarebbe comparsa; il Ka funziona così.
    Si allontanò qualche passo dalla molecola, dandole le spalle e sbadigliò. Erano due settimane che seguiva quel progetto, non avendo altri obiettivi da seguire. Dopo le sue due uscite in Grecia aveva deciso, per il meglio, di passare un po' di tempo senza lasciare l'isola, magari recuperando qualche progetto rimasto indietro, solo per scoprire che tra essi non ce n'era nessuno che valeva veramente la pena di seguire ulteriormente. Perciò, per sfuggire alla noia, si era buttato nella sperimentazione e nelle congetture. Argomento affascinante per una chiacchierata, ma inutile nel senso pratico del termine.
    Più tardi avrebbe aggiunto un paio di righe a riguardo nel suo webjournal, sepolto negli strati più bassi del deepweb, da cui gestiva anche qualche piccolo scambio di materiali e informazioni con altri stabilimenti scientifici. A pensarci era da parecchio che non aveva notizie da quello sottomarino di Rapture. Il loro esperimento sugli angeli era interessante e gli permetteva di avere nuovi dati, visto che l'unico angelo che era riuscito a rimediare era stato consumato nella creazione del Bosone.

    A proposito del Bosone, c'era qualcosa che non andava, era palese. Negli ultimi tempi la sua lucente purezza indaco era stata contaminata da macchioline nere. Inizialmente aveva pensato potessero essere segno di una manifestazione della coscienza di Kamael, soppressa e disciolta al suo interno, e aveva condotto intensive ricerche a riguardo, senza ottenere però risposte agli stimoli indotti. Si trattava di una idiotica corruzione, non aveva scopo se non quello di rovinare l'interezza dello schema. Non potendo asportare direttamente quelle microcorruzioni senza saperne la matrice d'origine per evitare recidive, come un vero e proprio cancro, non poteva fare altro che limitarsi ad incapsularle come neoplasie benigne, lasciando quelle gocce nere a galleggiare all'interno della massa cosmica, come petrolio in un bicchiere d'acqua. Al momento la funzionalità complessiva del bosone non era intaccata, ma Gabriel non poteva predire con certezza quando ciò sarebbe effettivamente successo. Era una questione di tempo. Doveva trovare la matrice originaria, era qualcosa di esterno, con una tale capacità di influenza sulla natura sottile del cosmo da interferire con qualcosa che non vi era direttamente collegato.
    Pensandola in quel modo un dubbio lo colse. E se quei nevi nel bosone fossero il riflesso di un qualche carcinoma ben più maligno nell'epireo, dove risiede l'autentico cosmo? Annuì pensando a ciò. Stava attendendo una eventualità del genere da anni. Un tumore deve raggiungere una certa massa prima di essere clinicamente riconoscibile, e questo era ciò che stava accadendo all'energia che sorregge l'universo, e secondo Gabriel, la torre.
    La torre stava crollando, consumata da qualcosa che non poteva osservare, forse stava per mostrarsi finalmente.

    It begins.

    Disse, quasi sospirando. Pensare e dire una cosa hanno due effetti differenti, e realizzare appieno che le sue previsioni basate su calcoli precisi si stavano avverando lo rincuorò, ricordandogli che il suo controllo sulla realtà era ancora saldo e flessibile. Era in grado di gestire qualunque ramificazione la casualità gli avesse presentato davanti. La vera capacità di Gabriel non era mai stata quella di pianificare enormi schemi complessi e infallibili, ma l'evolversi degli stessi. Da un canovaccio iniziale sapeva adattarsi quasi immediatamente ad ogni situazione gli si presentava davanti, poiché vi erano particolari che non potevano mai essere predetti o dati per scontati, come le reazioni e le idee delle persone. Dire che nell'arco di un anno le sue strategie erano cambiate un migliaio di volte era dire poco.
    Ora si trattava solo di attendere...anche se l'improvviso picco di ozono nello spettrografo che fluttuava accanto a lui gli fece capire che non avrebbe dovuto farlo per molto. Alcuini tipi di varchi spaziotemporali alteravano l'ossigeno nel punto di squarcio della realtà, lo trasformava in ozono con la loro energia, e quindi ancora prima che si spalancasse era possibile, con la giusta strumentazione, capire quando si sarebbe spalancato...anche se in quel caso l'intenso odore del gas in quell'ambiente chiuso lo tradì ancora prima che Gabriel potesse guardare lo schermo.
    Balzò all'indietro mentre davanti ai suoi occhi l'aria si spalancava tremando, prima di formare una fessura ovaloide, larga qualche metro e spessa meno di un millimetro. Se si fosse aperta trasversalmente rispetto a lui l'avrebbe a malapena notata. Essa dava su di un abisso che non conosceva, percorso da linee e punti di forza, come una mappatura nel vuoto assoluto, linee luminose che determinavano una struttura più sottile rispetto a quella della materia. La pressione dimensionale era quasi palpabile anche a metri di distanza dal portale.

    La via degli dei.

    Constatò, incrociando le braccia, mentre un ammasso scomposto precipitava attraverso il portale, cadendo sul pavimento con un tonfo liquido misto allo stridere di metallo sulla pietra levigata. Un grosso spruzzo di sangue si sparse in ogni direzione, dipingendo una strana stella a più punte sotto quello che Gabriel identificò come corpo moribondo. Un cosmo enorme permeò la piccola stanza, e Gabriel aveva già avuto la sfortuna di conoscere a chi appartenesse. Hermes, il messaggero degli dei, colui che aveva istruito i due draghi a diventarlo, assimilando le spade e divenendo tutt'uno con esse, in modo da poter sconfiggere i due lupi e di conseguenza sfidare i giganti per salvare il mondo dal Ragnarok. Era ancora vivo, lo vide raggomitolarsi su sé stesso e tossire, mentre la sua divina Kamui cadeva letteralmente dal suo corpo.

    G..gabriel...

    Esalò il dio, mentre il cavaliere nero si avvicinava con la dovuta circospezione. Quella situazione era assurda anche per i suoi standard. Non disse nulla, se il dio aveva qualcosa di importante da dire, lo avrebbe fatto anche senza che il Cancro nero pronunciasse il suo nome. Si limitò a guardarlo e attendere spiegazioni. Non lo toccò, perché vide la corruzione che imperava nella sua carne. Le ferite erano nere, suppuravano fumastro nero che dopo qualche istante condensava e macchiava il pavimento, mescolandosi all'ichor rimasto a terra. Non sembrava una corruzione profonda e completa, ma anche se superficiale sembrava abbastanza da segnare il destino del messaggero divino. Che cosa aveva combinato? Con chi era andata a cercarsela, lo smargiasso divino? Con la finta pazienza di un padre che vede il figlio tornare a casa coperto di lividi, Gabriel piegò le ginocchia, per avvicinarsi ad Hermes, la cui voce era poco più di un sussurro. Cercò di allungare la mano ed afferrarsi al suo polso, ma Gabriel si era messo appositamente appena fuori dalla sua portata. Non erano amici, non aveva debiti di gratitudine con lui. Mentre Hermes cercava la forza di parlare, tossendo sangue, Gabriel osservò le sue ferite, analizzandone l'aspetto. Erano simili ai nevi del bosone in modo preoccupante. Si passò una mano sul viso, soffocando un altro sbadiglio di stanchezza. Sì, il tumore aveva raggiunto dimensioni cliniche, e gli organi erano stati invasi. Se la matrice intrinseca del cosmo era stata corrotta, ovviamente i primi a pagarne erano stati gli dei, che attingevano direttamente dai vettori. Semplice.
    Che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa di terrificante su scala cosmica era evidente, il ragnarok era semplicemente una profezia che le entità nordiche si erano ingegnati a preparare, come una bomba a tempo millenaria. Gabriel attendeva IL VERO disastro, non previsto ne voluto dagli dei. Era una conclusione logica che prima o poi tutto sfuggisse dal loro controllo, portandoli ad una brutta fine.

    ...tutti morti...

    Continuò Hermes. A sentire ciò, Gabriel volse lo sguardo nuovamente verso il volto sfigurato del dio, osservandolo negli occhi cangianti, che divenivano via via più opachi. Mentre la vita del dio scivolava via, Gabriel lo interrogò, con lo stesso tono che avrebbe adoperato se tra loro due ci fossero state delle tazze di the. Non gli importava minimamente della vita di quella creatura, solo le informazioni che il suo cervello conteneva. Hermes lo sapeva, per questo cercò di dire tutto il necessario rapidamente, interrompendosi solo a causa di fitte di dolore o attacchi di tosse sanguinolenta, i cui spasmi costringevano il suo corpo ad espellere altra corruzione. Un piccolo darkling ne raccolse una goccia e la portò in laboratorio. Analizzandola direttamente ne avrebbe trovato la matrice e avrebbe creato anticorpi nel bosone adatti ad eliminarla. La voce del dio era scossa dal panico, secondo lui la fine era giunta, qualcosa di terrificante era arrivato a distruggere l'olimpo, e nessuno aveva potuto fare nulla per fermarlo. L'idea di un nemico più grande di quei pagliacci che aveva giurato di uccidere lo intrigò, e si intrecciò meravigliosamente con i suoi piani. Il suo volto si stirò in un ghigno ferale, che scoprì le sue zanne. Avrebbe volentieri divorato il corpo del dio, ma non sapeva quanta corruzione fosse nascosta all'occhio, e quali effetti avrebbe avuto su di lui l'assorbimento di ichor. La volta che aveva tentato di assorbire il bosone era rimasto fuori combattimento per mesi, mentre il suo corpo si adattava. Non era efficiente in quel momento, l'adattamento all'ichor l'avrebbe impossibilitato a rimediare all'incapacità degli dei. Prese il volto di Hermes tra le mani e lo sollevò da terra come se fosse un sacco di patate, reggendo solamente la sua testa e lasciando il corpo a penzolare inerte.

    Certo che c'è qualcosa che sta per distruggere l'umanità. C'è sempre una apocalisse incombente, ci sono decine di pantheon di voi stupide creature malamente evolute. Vi siete divertiti tanto nel passato a porre le basi per una disfatta assoluta, e ora ogni volta che cercate di evitarlo finite per inciampare nei vostri piani, perché funziona così, in questa realtà che VOI avete inquinato con il destino!

    Le sue dita si strinsero sugli zigomi e sulla mandibola di Hermes, portando i loro volti più vicini.

    E ogni volta che succede qualcosa...a chi chiedete aiuto? Alle creature più deboli di voi che in verità non avete mai potuto controllare.

    Scoppiò a ridere. Una risata gelida e priva di gioia, quattro spasmi del diaframma, alla stessa perfetta ed aliena cadenza. Il ritmo dei tamburi era tornato a martellare prepotentemente nelle sue tempie, il suono a cui marciavano il cambiamento e la distruzione dell'universo, rivelategli da un dio morente. L'era degli dei stava finendo, e se non gli fosse stato riferito nemmeno ne sarebbe venuto a conoscenza fino al momento del cambiamento epocale percepibile dall'intero pianeta. Sospirò. Prima il ragnarok e poi questo. Era un'argomento da sbattere in faccia a chiunque gli avesse detto che non combatteva per la salvezza dell'umanità.
    Con uno strattone delle mani strappò di netto la testa dal corpo del dio, gettandola poi nella superdimensione, osservando mentre si polverizzava. Il corpo cadde a terra sgraziatamente, alzando un grosso spruzzo di sangue. Già, vi era quel piccolo particolare, la via degli dei. Per quanto la sua armatura, o le sue scaglie, fossero robuste, eventualmente la pressione dimensionale sarebbe riuscita a distruggerlo ancora prima di arrivare all'elisio. In tale frangente nemmeno l'ottavo senso lo avrebbe aiutato, l'anima di chi perisce nella via degli dei viene anch'essa distrutta. O almeno questo era quello che sapeva per sentito dire.
    Osservò per qualche altro istante quel buco nello spazio-tempo, percependo una tenebra senza fondo che esulava quella della via stessa. Era un trasudare di qualcosa di maligno, incomprensibile. Che gli orrori dello spazio profondo avessero deciso di muoversi?...no, era differente, percepiva lo stesso puzzo cosmico che permeava il sangue nero riversatosi a terra dal corpo di Hermes. Due tentacoli d'ombra sollevarono il cadavere decapitato, portandolo sopra di Gabriel, e la corazza nera comparve sul suo corpo in riccioli d'ombra, solidificandosi con il rumore del ghiaccio che si rompe. Sgranchì le dita artigliate come suo solito, trovandosi più a suo agio con l'armatura addosso, che in un certo senso emulava la sua condizione di pura potenza nella forma draconica, in contrasto con quegli insulsi dischetti di cheratina che aveva sopra le falangi. Con un rapido gesto della mano aprì il ventre di Hermes e una doccia di sangue e viscere cadde su di lui, con il denso ichor che gocciolava seguendo i ricchi intarsi della sua armatura modificata.
    In quel momento desiderò ardentemente che Hermes fosse una divinità femmina, poiché ricoprirsi a tal modo del sangue maschile in un certo senso lo ripudiava, mentre invece fare certe cose con il sesso opposto era diventata quasi ufficialmente la sua piccola perversione. La normale sessualità era un concetto estremamente sopravvalutato dalla specie umana.
    L'armatura nera fece il resto, vorace e aliena come il suo proprietario. Assorbì il sangue divino, lasciando cadere a terra gli inutili ammassi di organi interni depositatisi sopra le sue placche affilate. Percepì il cosmo liquido delle divinità insinuarsi nelle microcrepe sempre presenti in una corazza, tra le giunture delle articolazioni, scivolare tra le sue dita incassate negli artigli, percorrere l'elmo cornuto, cercando di distribuire equamente il potere.

    Mentre l'armatura scricchiolava e gemeva come un ponte prossimo al crollo, Gabriel si avvicinò al portale, la cui vicinanza fece percepire a Gabriel sia la pressione dimensionale che il risucchio d'aria che stava operando fin dall'inizio della sua comparsa. Inspirò profondamente. Stava per raggiungere l'olimpo. Da anni cercava un modo per raggiungerlo con mezzi propri, ed ora era stato letteralmente invitato in esso, per rimediare alla debolezza delle divinità. Gli dei avevano bisogno del suo aiuto. La situazione era talmente ironica che Gabriel scoppiò a ridere nuovamente. Sempre quattro versi. Il ritmo dei tamburi. Non lo aveva più abbandonato da quando era ricomparso.
    Da quando era nato.
    Non aveva idea di come funzionassero le regole fisiche in quella dimensione, ne come avrebbe raggiunto effettivamente l'ingresso dell'elisio. Forse era come sembrava, una struttura cilindrica che faceva da tunnel da percorrere. Era un'idea, per la quale si gettò nel vuoto, lasciando dietro di sé una scia di goccioline di sangue. Il cosmo di Gabriel arse violentemente, invadendo quel tunnel dimensionale con l'oscurità assoluta, più nera del buio spaziale, più gelida del vuoto cosmico. L'armatura del cancro nero scricchiolò nuovamente, stavolta per la pressione della superdimensione, dove percepì una densità simile a quella di un liquido. Ecco spiegato il mistero della terribile natura della via degli dei...lo spazio era tanto denso da essere viscoso, non c'era da sorprendersi se qualunque cosa non divina finisse annientata.
    Il cosmo nero di Gabriel raggiunse le venature di sangue che avevano invaso la corazza, innescando il processo che aveva sperato di ottenere quando si gettò. La sua armatura brillò di luce nera, mescolando il cosmo di Hermes a quello di Nidhoggr, alterando il metallo, dandogli nuova forma, nuova vita. Nella sua corazza ora scorreva e pulsava la vita di un dio.
    Ali di metallo nero si spalancarono sulla schiena di Gabriel, e sbatterono con tanta forza da scacciare la tenebra e dargli spinta nella super dimensione, facendolo sfrecciare in avanti lungo il tunnel, con le linee di forza che scorrevano ai limiti del suo campo visivo come luci di segnalazione in una galleria. Una maschera draconica si chiuse sul suo volto, proteggendolo dall'addensamento dimensionale.
    Lo sguardo celato dietro quelle lenti color granato era fisso sul fondo del tunnel, dove vedeva la luce di un'altra apertura, l'elisio, da cui proveniva una luce cinerea. Non prometteva bene, ma nonostante tutto oramai si era deciso, e sopratutto non sapeva se il potenziamento alla corazza fosse perenne o si sarebbe esaurito durante il viaggio, perciò decise di percorrere la metà rimanente di strada, piuttosto che aumentare il tragitto da fare voltandosi e tornando indietro. Come un enorme pipistrello d'oscurità il cancro nero sfrecciò verso l'apertura, che gradualmente lasciava sfuggire nella dimensione volute di corruzione.
    Una volta entrato, allargò completamente le ali e cabrò agilmente, appoggiando poi i piedi a terra, giungendo per la prima volta in vita sua nel regno degli dei. Con un sottile stridio le ali si avvolsero sulle sue spalle, generando un mantello segmentato che copriva quasi interamente il suo corpo, dando l'idea che fosse poco più di un'ombra che scivolava tra i fiori rinsecchiti, piuttosto che un cavaliere.
    Ovunque guardasse, Gabriel vide la distruzione e la corruzione che imperava, invadendo ogni struttura che chissà quanto poco prima doveva risplendere del fulgore della presenza degli dei. Rabbrividì per l'eccitazione, come un bambino che visitava per la prima volta il tanto promesso parco dei divertimenti, ricostruendo nella sua mente la magnificenza del luogo che avrebbe voluto distruggere personalmente, e studiando la corruzione che i suoi occhi scorgevano in ogni angolo, nella sua mente si ricostruì la distruzione di colonne e templi. La sua fantasia gli permise di assaporare eventi già accaduti come se fossero lì davanti a lui, osservatore del continuum. Purtroppo tale capacità esulava dalle sue possibilità. Per ora. I fiori morti e grigi scricchiolavano sotto il tacco dei suoi stivali, mentre incedeva fiero nello scenario di devastazione che era sempre stato il suo destino. Nel vedere il simbolo massimo di privilegio divino profanato a quel modo, l'anima di Gabriel era scossa da sentimenti contrastanti. Da un lato vi era la rabbia per non esserne l'artefice, dall'altro vi era la pura e semplice ammirazione della distruzione nel suo concetto più semplice: osservarne i prodotti.
    Edifici rimasti immoti per secoli sbriciolati, solcati da venature nerastre e da rampicanti tossici che esalavano piccoli sbuffi di mefitica corruzione, come funghi che emettono le loro spore per riprodursi. Il tutto aveva un che di inebriante. Allargò appena le braccia, avanzando come l'apostolo che riceve lo spirito santo, sentendo il sapore della carne morta in bocca mentre catturava l'aria. Quando trovò il primo cadavere, lo esaminò accuratamente, senza però concedersi di toccarlo. La corruzione che esalava quel corpo scheletrico era persino più intensa di quella che possedeva Hermes. Evidentemente questi erano gli effetti completi di questo strano morbo cosmico. Il corpo pareva femminile, e le placche di armatura che indossava le andavano palesemente larghe, dopo un tale dimagrimento. La condizione della cute tuttavia non suggeriva decomposizione o mummificazione. Era malnutrizione. Quella guerriera celeste era morta di fame. Come era possibile nei campi elisi morire di fame? Gabriel si sfiorò il mento pensoso. Era un interrogativo affascinante, ma forse aveva un senso di fondo. Con la corruzione del fondamento che costituiva i campi elisi, probabilmente necessità come la fame e minacce come l'inedia erano state impiantate dal cancro stesso. Ma non poteva metterci la mano sul fuoco. La pelle era flaccida e penzolava dalle ossa, come se fosse stato svuotato dall'interno. Era un dimagrimento rapido e violento, la pelle non aveva fatto in tempo ad adattarsi. Era stata letteralmente prosciugata. Non potendosi concedere il lusso di prendere campioni, avanzò, incontrando sempre più corpi nella stessa condizione.
    Scoppiò a ridere quando trovò un cadavere dal ventre squarciato, circondato da altri tre. Avevano cercato di divorare quello che appariva un coppiere, inutilmente. Uno dei tre cadaveri stringeva ancora tra i denti un'ansa intestinale. Scosse la testa, quasi intenerito. La fame è uno degli istinti primordiali delle creature viventi, ed è capace di dominare qualunque altra emozione. È per fame che l'animale è disposto ad attaccare l'uomo od avventurarsi nelle città urbane. Per certi versi, la fame era un bene, ma la morte per inedia era ritenuta da Gabriel...angosciante.
    Tra tutti i metodi che aveva utilizzato fino a quel momento per porre termine ad una vita, l'inedia non era mai stata utilizzata. Richiedeva troppo tempo e non era piacevole da guardare come altri. Vedere la propria vittima che appassisce via toglieva significato all'atto dell'uccidere. La potenza dell'omicidio era l'interrompere una vita nel suo fulgore massimo, nell'attimo di massima espressione emotiva. No, non avrebbe mai affamato qualcuno, tutti i suoi soggetti, prigionieri o cavie erano sempre adeguatamente nutrite e mantenute al massimo della salute, quando non era controproducente rispetto l'esperimento.
    Ridacchiò. Certe volte si ritrovava a considerare l'esperimento un bonus all'uccisione. Forse era vero, forse era no, dipendeva dal suo umore. In ogni caso la sua scienza avanzava. Incontrò altri corpi corazzati, angeli, o altro. Forse berseker. Nessuno spectre, questo lo trovò strano. Quando incontrò la statua rossa si fermò, facendo ardere il proprio cosmo, riconoscendo quella che era una Kamui color ambra. Nella sinistra reggeva un enorme scudo e gli puntava contro una lancia dalla larga lama. L'elmo dall'alto cimiero gettava ombra sul volto, impedendogli di riconoscerlo. Il cancro nero fissò la torreggiante figura a lungo, studiando quella posizione pronta all'attacco...o congelata durante un attacco...
    Si avvicinò ulteriormente, scrutando il volto in ombra. Un altro cadavere denutrito, anche se nei suoi zigomi vi era qualcosa di fiero...di greco. Sgranò gli occhi quando realizzò a pieno che quello ERA Ares. Gocce di corruzione colavano dal suo naso e dall'angolo della bocca dalle labbra.
    Solo la completezza della sua corazza lo sorreggeva ancora in piedi, e gli occhi oramai vitrei sporgevano dalle orbite, troppo tirate per coprirli. Erano effetti diversi da quelli che aveva osservato su di Hermes, che davano più l'idea di una tenebra indifferenziata e corruttrice, piuttosto che qualcosa di divorante. Forse era opera di agenti diversi. Come per gli altri corpi, evitò di toccarlo e passò oltre. Più avanzava verso quello che doveva essere il centro, più il numero di corpi aumentava, e tra essi trovava anche comuni umani, anime che si erano meritate il posto nei campi elisi. Nemmeno il loro paradiso era più sicuro, e probabilmente avevano raggiunto la Morte Ultima, la totale dissipazione dell'essere. Il Nulla.

    Nella sua esplorazione del palazzo che trovò poco dopo, Gabriel rinvenne sul letto il cadavere di Aphrodite. Nel vederlo, si fece una grassa risata. La causa della morte era diversa da quella degli altri cadaveri, probabilmente suicidio, e sembrava meno recente. La decomposizione era cominciata, e la pelle della dea era livida, quasi dello stesso colore del sottilissimo abito che indossava, attraverso la quale riusciva a vedere tutto quanto. Non si aspettava di meno dal corpo della dea dell'amore, o della bellezza, o della sensualità. Non l'aveva mai capito onestamente, in quanto era a suo avviso la dea per la quale era inutile documentarsi. Seni pieni e turgidi, gambe tornite e ventre piatto. Indugiò qualche istante sul buffo pensiero di stare guardando il monte di Venere di Venere. Era semplicemente distesa sul letto, con le mani giunte sul seno, ma Gabriel si concesse il lusso di profanarne la memoria, afferrando uno dei ventagli ad impugnatura lunga di metallo si ingegnò, facendo leva sul retro delle ginocchia senza toccarla, ad aprirne le gambe. Qualcosa l'aveva privata del rigor mortis, e Gabriel ne approfittò prontamente, andandosene da quella stanza lasciando la dea in una posizione oscena ed umiliante. Le sue risate echeggiarono per i corridoi. Quell'azione era paragonabile ad un bambino che rompe i vetri di una casa abbandonata, ma non poteva fare a meno di ridere come non faceva da tempo. L'intera idea di stare camminando nelle rovine fresche di distruzione dell'elisio era semplicemente SPASSOSA. E i tamburi rendevano tutto quanto come lo spettacolo di un circo, tutto era l'eterno attimo in cui si trattiene il respiro prima del salto dell'acrobata.

    Solo che questo acrobata non degna di farsi vedere...

    Disse ad alta voce, a nessuno in particolare.
    Per quanto stesse indugiando in questioni puerili, non mancò di registrare ogni particolarità trovata, ogni traccia di corruzione, cercando di identificarne la natura. Era qualcosa di nuovo, e allo stesso tempo già visto. Era palesemente una versione più grave di ciò che stava accadendo al bosone, e per quanto avesse potuto curare la sua creazione, quanto vide nell'elisio era irreversibile. Quella era una dimensione destinata a morire. Non ci sarebbe voluto molto prima che la corruzione raggiungesse la struttura sottile, contaminando lo spazio e lasciando che la superdimensione filtrasse in essa, colando all'interno e distruggendo ogni cosa, rivoltando quel cul de sac che erano i campi elisi. Mentre seguiva una nuova direzione, vide che la malnutrizione dei corpi diminuiva di gravità.

    Mi sto allontanando.

    Constatò, invertendo la marcia e cercando di seguire la pista di cadaveri.
    Si rese conto di avere fame. Arricciò il labbro, forse la vista di Afrodite aveva contribuito a risvegliare il suo appetito primordiale di carne umana, o forse no. Forse anche lui stava cadendo vittima della trappola, ma più avanzava in quel corridoio illuminato malamente da torce quasi esaurite, più sentiva di avvicinarsi, in proporzione all'aumentare della sua fame. Se all'inizio era quel languorino colpevole che può farti desiderare Junk food, in quel momento era sbocciato in vera e propria fame da pasto saltato, ed aveva pranzato solo da un paio d'ore. Sì, si stava definitivamente avvicinato, e più avanzava, più cominciava a sentirsi debole. Quella era una fame senza tempo, rapida e terrificante. La tentazione di tornare indietro e mangiare il cadavere di Afrodite divenne prepotente, ma non al punto da oscurare il suo giudizio.
    Attraversò l'ultima porta e trovò l'acrobata.

    In un angolo della stanza, su di uno scranno, sedeva la fame. Non poteva avere un'aspetto più consono e al contempo inatteso. Un piccolo bambino africano, dal corpo scheletrico ed il ventre gonfio. La pelle era così scura e malata da raggiungere una strana gradazione di verdastro, ma i suoi lineamenti scheletrici ne tradivano l'origine. Che fosse veramente un bambino, Gabriel ne dubitava, trovava più plausibile che quel concetto della fame avesse assunto la forma più consona a rendere l'idea della propria esistenza nel mondo moderno.
    Trovare un cosiddetto bambino del Biafra nell'olimpo lasciò uno strano gusto in bocca a Gabriel, che per un istante coprì quello della fame. Doveva impressionarlo? Doveva farlo sentire in colpa? Doveva impietosirlo? Non funzionava così. I media non avevano fatto altro che sbattergli in faccia quelle immagini per quasi tutta la sua vita, o forse lo facevano ancora, aveva semplicemente smesso di guardare la televisione. L'ossessiva campagna di sensibilizzazione non aveva fatto altro che desensibilizzare il mondo intero. Oramai era una cosa normale, accettata da tutti, e il continuo peggiorare delle condizioni economiche aveva reso le persone troppo concentrate sulla PROPRIA condizione. È innegabile, l'uomo è disposto ad aiutare gli altri solo quando non ha bisogno di aiuto egli stesso. È autoconservazione, nulla di più.

    Ebbene?

    Chiese Gabriel, la sua voce echeggiò in quella grande stanza, che forse un tempo era uno studio o un archivio, ma che in quel momento grondava corruzione da ogni possibile parte. Solo pochi angoli di pavimento bianco erano ancora visibili, e Gabriel si ritrovò a camminare su strane vene nere. Fortunatamente il sangue di Hermes teneva lontano livelli così bassi di contaminazione. Incrociò le braccia, evitando di avvicinarsi ulteriormente. Il bambino volse gli occhi bulbosi verso di lui. Parevano più quelli di una locusta, tradendo completamente l'inumanità. Dietro la maschera, Gabriel esalò, cominciando ad inquietarsi. I movimenti di quel bambino erano così lenti e fiacchi, aveva a malapena la struttura muscolare necessaria a restare eretto e non accasciarsi completamente su se stesso. Per questo era inquieto. In certe condizioni, più un avversario si mostrava debole, più era vero l'esatto contrario. Il bambino farfugliò qualcosa, ma Gabriel non riuscì a distinguere le parole, tanto debole fu il suono, ma sentì che parlò con più voci, alternandosi tra una parola e l'altra, come un intera folla che aveva studiato un copione da recitare a spezzoni.
    Aveva una fame tremenda. Deglutì. E se la fame più che dovuta alla vicinanza fosse dovuta alla corruzione stessa? Che fosse stato infettato da hermes?...no, la sua corruzione era diversa, era l'intero luogo. L'olimpo era diventato la corruzione stessa, e più tempo vi passava, più sarebbe peggiorata la sua condizione. A che punto sarebbe arrivato? Si sarebbe trasformato in drago e si sarebbe tagliato la coda per poter sfamare a lungo la sua piccola forma umana? Il pensiero fece aumentare la salivazione.
    Il cosmo di Gabriel si incendiò, generando una fumosa aura nera attorno al suo corpo. Il suo stadio normale di superpotenza, dovuta alla natura perfezionata del suo cosmo oscuro. Un primo boato. Con un secondo boato raggiunse il suo vero potere, e le mura attorno ai due si creparono all'istante. La spada Nidhoggr comparve nella sua mano, scintillando ebbra di potere e crepitante del puro potere caotico che vomitava nel mondo. La corruzione si polverizzò attorno a lui, divorata.
    Non aveva altra scelta, quello era il potere di Nidhoggr, il drago che tra le sue ali reca i morti. Divorare ogni cosa che lo circonda e rigurgitarla nell'universo con il solo scopo di distruggere, una potenza paragonabile al nono senso, l'esatto opposto del miracolo che piaceva tanto a Daya. La blasfemia perfetta, il massimo insulto alla realtà, il disgustoso potere indifferenziato.
    Il pavimento sotto i piedi di Gabriel cominciò a polverizzarsi mentre la spada si nutriva dell'energia che teneva insieme le sue molecole, impastando il khaos.
    Con un ampio gesto del braccio Gabriel scagliò il suo attacco. Non un fendente, ma una semplice ed enorme massa di energia nera e silenziosa, che aprì letteralmente in due la stanza e continuò nel suo tragitto per centinaia di metri, polverizzando ogni singola cosa. Un'assalto barbarico, semplice, atto a valutare le capacità dell'avversario, se ne aveva, piuttosto che essere semplicemente un ammasso di fame senza ragione. La luce del cielo contaminato dell'elisio inondò quella che oramai era semplicemente mezza stanza, rivelando il bambino, che giaceva semplicemente a terra, respirando piano come se nulla fosse accaduto.

    Krosis.

    Sibilò Gabriel, sollevando la spada. Calò il buio assoluto, e centinaia di lance crepitanti dell'energia di Nidhoggr si disposero a cupola intorno a quel piccolo corpo, piovendo su di esso in maniera tanto rapida e fitta che nemmeno Gabriel riuscì a distinguere qualcosa nelle proprie tenebre. Nidhoggr faceva da canalizzatore delle energie ambientali, il calore, la coesione atomica, le forze elettrolitiche dell'umidità atmosferica, ciò che mantenva integre le strutture intorno al drago nero, continuando a produrre la sua orribile energia senza che Gabriel si stancasse minimamente. Finché l'universo sarebbe esistito quell'attacco sarebbe potuto continuare in eterno. Dietro la maschera draconica, Gabriel aggrottava le sopracciglia, estremamente cauto. Nessuna reazione, nessuna fluttuazione cosmica. Fendette nuovamente l'aria con la spada, balzando all'indietro e ripetendo il primo attacco, e lasciando che il buio si dissolvesse.
    Nessuna ferita, nessuna reazione, nessun effetto. Aveva modificato la propria posizione, c'era stato un contatto. Ma perché non aveva lasciato segni visibili? Una simile scarica continua di colpi e i due fendenti sarebbero stati capaci di danneggiare una kamui, ne era certo! Perché il bambino non subiva danni?
    Il bambino era dietro di lui.

    COS-

    Riuscì solo a voltarsi e tentare un colpo con la spada, prima di venire colpito. Il bambino era sospeso a pochi centimetri da lui, con gli arti abbandonati alla forza di gravità, dondolanti e inutili. Quella piccola testa calva si spalancò in quattro sezioni, e dal sottile collo scaturì una enorme massa vermiforme, tanto piena di denti dalle gengive tirate e sanguinanti da risuonare come un sonaglio. Il verme si agganciò al fianco di Gabriel, aderendo alla sua corazza come una ventosa scossa da movimenti peristaltici. Il solo contatto lasciò Gabriel senza fiato, e ad ogni pulsazione di quella cosa gli succhiava via l'energia. TUTTA l'energia: fisica, mentale, spirituale. Lo stava divorando interamente. Se non avesse avuto Nidhoggr con sé sarebbe semplicemente morto in quel momento, poiché anche il suo cosmo originario stava venendo risucchiato da quel verme. Nidhoggr divorò ancora, facendo crollare completamente le rovine della stanza, polverizzando altra corruzione e scindendola nelle sue componenti fondamentali, potere puro sdifferenziato. Una propaggine di tenebra caotica sorse da terra, tranciando a metà il verme, che semplicemente cadde a terra, inerte, polverizzandosi.
    La creatura bambino emise un verso orrendo, stridulo, una cacofonia di migliaia di voci diverse, mentre Gabriel si allontanava strisciando a terra, comandando le sue tenebre di colpire, di divorare altra corruzione, di incorporare la fame in loro e usarla per divorare il bambino. Ansimando si distese sulla schiena, reggendosi il fianco. Sotto la corazza l'addome si era incavato, completamente prosciugato dalla massa grassa, anche dove era fisiologica, e la massa muscolare si era ridotta fino a quasi sparire. Nessuna attenuazione cosmica, nessun contatto diretto con la carne, niente. La testa gli pulsava dolorosamente, si sentiva come se non avesse mangiato e dormito per una settimana intera, e la sua anima fremeva, danneggiata anche ella dal contatto. Le anime importanti non erano state toccate, ma nel costrutto interiore si era aperto un vero e proprio squarcio, e sarebbero stato necessario nutrirsi adeguatamente prima di poterlo riempire nuovamente. Quando il bambino gli fu davanti al viso, Gabriel fu pronto. Lo tranciò a metà con la spada nera, rotolando via dalle frattaglie che scagliò in ogni direzione...solo per ritrovarsi faccia a faccia nuovamente con lui.
    In quel momento capì.
    Non ce n'era uno solo...erano solo AGENTI della fame, del concetto principale.

    FUS RO DAH!

    Focalizzò il potere della spada nella propria voce, disintegrando a livello fondamentale quel corpo scheletrico, prima di rimettersi in piedi, grazie alle tenebre caotiche che riempirono la sua armatura, sostenendo la sua forma oramai rinsecchita. Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse dimagrito da quando aveva messo piede nell'olimpo, gli ricordò la debolezza che aveva il suo corpo provvisorio durante la crisi Kamael.
    Il primo bambino era rimasto illeso ad ogni attacco perché così funziona la fame. Prima aleggia intorno all'essere vivente, intoccabile, solo allontanabile mangiando, ma rimane lì, attende il momento di entrare in azione, e quando lo fa VERAMENTE, è inarrestabile. Il corpo divora se stesso pur di soddisfare quel singolo bisogno primordiale, esistente fin da quando l'evoluzione ha creato il metabolismo. Ora che la fame era diventata aggressiva, palpabile, poteva solo cercare di allontanarla, di non pensarci, ma essa avrebbe comunque indebolito il suo corpo. Gemette per un profondo crampo allo stomaco, oramai ristrettosi al punto da apparire una parte dell'esofago. Come diavolo poteva affrontare un CONCETTO?

    MOSTRATI!

    Gridò Gabriel, incendiando il cosmo di Nidhoggr e assumendo la sua vera forma, spiccando il volo nel cielo rossastro e lasciando dietro di sé una scia di tenebra fumosa. Rimase sospeso in aria per qualche battito d'ali, sentendo in bocca il sapore del sangue che colava dalle gengive tirate dalla malnutrizione. La tenebra e il cosmo sostenevano i suoi movimenti.
    La terra sotto di lui si spaccò, quando il secondo drago nero sorse da essa, spalancando le proprie ali macilente e fermandosi davanti a Gabriel, che finalmente capì.
    Non stava affrontando qualcuno o qualcosa capace di incanalare il potere della fame, ma qualcosa di più simile alla fame stessa, nei suoi significati più sottili, priva di un corpo proprio. I bambini erano l'idea che Gabriel aveva dell'inedia, l'immagine stampata nella sua mente dai media, divorati dai vermi e deformati dalla malnutrizione. E in quel momento, chi per Gabriel rappresentava di più l'idea della fame assoluta, il nutrirsi fine a se stesso, che oltrepassa addirittura la necessità? Una fame sintetica, fasulla, una condizione mentale alterata? Se stesso.
    Nidhoggr ruggì con tanta forza da far tremare la terra, prima di avventarsi sul suo più sordido e represso istinto di divorare l'intero pianeta e divenire un'unica entità collettiva.

    I tamburi scandirono il ritmo di quel brutale scontro, due macchie nere nel rosso sanguigno del cielo, i cui colpi sbriciolavano edifici a centinaia di metri di distanza. La spada, il nucleo del potere del drago nero fremeva, continuando ad assorbire e riveicolare la corruzione nei suoi colpi. Per poter continuare a combattere la fame, la stava paradossalmente divorando. Stava dividendo per zero nella speranza di cogliere l'occasione propizia e vincere. Il cosmo stesso del drago nero, da caotico divenne AFFAMATO. I suoi immensi colpi di tenebra e caos, prima semplici bordate energetiche, lame, raggi, o qualsiasi altro assalto non guidato dall'estetica ma dall'utilità, divenivano via via più dettagliati, precisi. Enormi tentacoli di tenebra riempivano il cielo, agitandosi, fremendo e pulsando di peristalsi, schioccando enormi zanne capaci di ingoiare intera la forma dei due draghi, cercando di fare esattamente ciò. Il respiro del drago nero originale era sempre più affannoso, agitato. I suoi movimenti erano nervosi, convulsi, e i suoi pensieri sempre meno coerenti.
    La linea oltre la quale quello smetteva di essere un combattimento per la vittoria e diveniva un cercare di divorarsi a vicenda era stata attraversata da parecchio tempo. L'addome di Nidhoggr era completamente incavato, le sue viscere vuote e tirate, così come lo era la pelle sulle sue ossa. Le scaglie cadevano a gruppi dalla pelle denutrita e malata, e le chiazze bianche risaltavano brutalmente nell'oscurità che componeva il drago, che sanguinava per i numerosi morsi ricevuti su tutto il corpo, i quali avevano più volte grattato le ossa.

    I ruoli si erano invertiti.
    Gabriel era diventato la fame.

    Mentre il falso drago evitava per l'ennesima volta i tentacoli, Gabriel si avventò su di esso, ammantato di oscurità e nascosto dai suoi stessi costrutti. Lo colpì al torace come un ariete, afferrando il suo collo con le zanne e forzando la tenebra nei suoi muscoli per bloccarlo tra i suoi artigli. Le due enormi creature caddero a terra a piena velocità, segnando un profondo solco nella terra contaminata, che si polverizzò come ogni cosa toccata da Nidhoggr fino a quel momento.
    L'inedia quasi terminale e il combattimento avevano completamente devastato il suo corpo, che si ergeva sulla sua copia, schiacciandola a terra, mentre le ultime scaglie cadevano dalla sua pelle.

    DRAGOGAB_zps51d1f6d9


    Una creatura quasi impazzita per la fame, nuda e insanguinata, dalla pelle color dell'avorio, spalancò le sue sue ali dalla pelle consumata e quasi trasparente, sovrastando l'incarnazione della propria fame assoluta, che millenni prima era stata la rovina del primo cancro nero Yawgmoth. I tamburi sovrastarono il suono della realtà morente, mentre Nidhoggr scrutava la sua preda attraverso le sue palpebre secondarie, diventate tanto opache da essere quasi indistinguibili dalla pelle.

    Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii gridare una voce in mezzo ai quattro esseri viventi: «Una misura di grano per un danaro e tre misure d'orzo per un danaro!



    Durante la carestia, ogni legge, ogni umanità, ogni giustizia, perde senso.
    Il drago nudo inarcò il collo e spalancò le fauci insanguinate, altre tre file di denti si concretizzarono dall'ombra in esse.

    Olio e vino non siano sprecati!



    Nessun brandello di carne o frammento osseo si allontanò dal banchetto, nulla venne sprecato, mentre l'intero universo marciava a ritmo serrato verso Discordia.

    ARMAQuadro-01





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    Edited by ~S i x ter - 16/9/2019, 22:22
     
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