Operation stone axe
- Chapter XII -
Volare era così semplice.
No, non volare.
Levitare.
No. Nemmeno quello.
Era semplicemente esistere.
Era un essere vivente. Da qualche parte, in qualche modo.
Esisteva e tanto gli bastava.
La luce del sole non era mai stata così abbagliante. Gli occhi si chiusero per evitare di venire trafitti ancora, ma le lame di luce penetravano lo stesso le palpebre abbassate. Era solo un’altra ferita, un altro danno da sopportare che minava la sua sanità corporea e mentale.
Non aveva ancora capito chi fosse il suo salvatore, non lo aveva ancora visto, eppure sentiva il suo potere avvolgerlo e portarlo fuori dalla cava collassata tenendolo stretto per le braccia, quasi come un prigioniero che viene trascinato a forza verso la sua condanna. L’invisibile essere lo adagiò sull’erba facendo più attenzione possibile, ma le placche piegate dell’armatura costrinsero nuovamente il suo corpo contro il gelo mettendolo nuovamente faccia a faccia con la costrizione di ogni muscolo. Tentò di prendere boccate d’aria più ampie ora che era fuori dalla fumosa caverna, ma il petto non si espandeva e quando lo faceva il caldo e viscoso liquido cremisi andava ad agire come colla. Sentiva dolore ovunque, non c’era parte del suo corpo che fosse stata risparmiata da quella tortura. Non riusciva quasi a muoversi sull’erba giallastra, ma lottò ancora per girarsi sul fianco e tentare di volgere lo sguardo verso la voce del suo salvatore che sembrava star dialogando con la Grado. Si conoscevano? Loro sapevano dell’invisibile essere? Se sapevano perché non gli era stato detto nulla? Perché non era importante che sapesse ovviamente, come sempre.
Prese un altro respiro che si bloccò a metà facendogli tossire sangue contro i filtri dell’elmo.
Il giallo del mondo appariva sfuocato alla sua vista, traballante, come se tutto si muovesse fin troppo velocemente attorno a se’. La testa pulsava fin troppo forte caricando ogni input di una fitta nebbia, un ulteriore ostacolo alle sue già menomate percezioni.
«Chi… chi sei?» Chiese all’invisibile alleato. Chi doveva ringraziare per quel volo rapido fuori da una tomba di terra? Chi lo aveva salvato, ma soprattutto da cosa era stato salvato? Attese una risposta ma non la sentì mai giungere. Si arrese. Lasciò che il corpo riposasse contro la nuda terra. Non poteva far altro.
I soccorsi stavano arrivando. Bastava resistere.
Il campo era entrato in pieno fermento dalla ricezione della notizia. Non solo le delimitazioni erano state passate da una forza sconosciuta, ora quella forza si faceva anche beffe di loro dando loro degli ordini. Viktor era livido di rabbia e sbraitava ordini a destra e manca mobilitando tutto il reparto sotto al suo comando senza mancare di sputare veleno qua e là diretto a chi, secondo lui, meritava la sue ire.
« Lo sapevo io. Era ovvio che si sarebbe fatto ammazzare. Mai fidarsi dei ragazzini. Quello aveva ancora i denti da latte!» «Lo stai giudicando troppo severamente.» Syrus d’altro canto cercava di mantenere un aspetto molto più pacato visto che era impossibilitato a fare alcunché. Non era però meno tranquillo del compagno, anzi, la sua preoccupazione superava di gran lunga quella del soldato, solo lo dava a vedere diversamente. Le sue dita volavano sulla tastiera mentre cercava per l’ennesima volta di ristabilire le comunicazioni perse e di elaborare una via rapida verso le coordinate che gli erano state inviate dall’insospettabile alleato.
«Troppo severamente? Troppo <i>dolcemente<i> vorrai dire. Saltano le comunicazioni e non si fa vivo, poi arriva uno sconosciuto che invade a piacimento i nostri territori senza che noi possiamo dire nulla, per venire a dirci che ha bisogno di aiuto. Vedo DUE enormi problemi.» « Magari stava tornando quando qualcosa di grosso lo ha preso.» «Ti sembra che stia tornando uno che si trova lì? Bah… uomini, muoviamoci!» Fucili cosmici alla mano i cancelli si aprirono per permettere loro il passaggio. La squadra, composta da sei uomini, si muoveva rapida per il percorso più rapido prestabilito. Ignorarono ogni anomalia pur di giungere il più rapidamente possibile alle coordinate indicategli, tranne per una deviazione atta ad evitare di passare troppo in prossimità di un focolaio. Passato il letto asciutto del fiume la geografia tra la mappa posseduta e quella che si mostrava davanti a loro non coincideva.
La terra sembrava avvallarsi e le colline erano state rase al suolo. Rimasugli di oggetti umani giacevano qua e là per il terreno smosso, quasi come lapidi e falò improvvisati eretti a memoria degli eventi.
«Signore lo vedo» Asserì uno dei soldati dirigendo l’attenzione del gruppo al corpo adagiato su di un copertone mezzo sotterrato. L’armatura nera lo ricopriva ancora ma profonde crepe minavano pesantemente alla copertura difensiva che essa poteva ancora fornire. Al contrario da esse sgorgavano viscose preziosissime gocce di sangue che coloravano il terreno adiacente di un profondo cremisi. Dove non c’erano crepe le placche erano piegate verso il fuori o verso il dentro premendo contro il corpo intrappolato all’interno.
« Ragazzo? Ragazzo mi senti?» Nessun segnale. Garynja lo scosse dolcemente per le spalle, ma ricevette in risposta solo uno sbuffo d’aria gracchiante. I cinque aprirono la barella pieghevole pronti a caricare il ferito mentre il capitano faticò a rimuovere l’elmo della steel cloth. I comandi elettronici non rispondevano quindi dovevano prepararsi a smontarla a mano una volta giunti al sicuro. Era incosciente, con respiri brevi e affaticati, probabilmente compresso dall’armatura stessa. Il cuore batteva, ma sembrava debole. Dovevano portarlo via di lì. Avvolsero un pannò contro le fessure da cui più sgorgava sangue e lo caricarono sulla barella prima di sparire a passo rapido per la stessa via da cui erano arrivati.
Bip.
Bip.
Bip.
Il mondo era fin troppo rumoroso. C’era un basso ronzio che accompagnava ogni altro suono. C’era un costante bip a cui era impossibile abituarsi. Rumori di passi e di voci soffuse completavano il quadro rendendo impossibile continuare a volare nel vuoto. Fu costretto ad atterrare da qualche parte dove venne accolto da un’insopportabile odore di alcool o di un qualche disinfettante. Si ritrovò adagiato su un nido asettico non troppo morbido dove le dita strisciavano ruvide. Riusciva a muoversi poco, qualcuno o qualcosa lo tratteneva. Dei lacci, dei cavi. Era di nuovo intrappolato? Era stata tutta un’illusione la sua fuga dalla cava? O forse era di nuovo nelle celle della Grado? Non poteva essere successo di nuovo. Fastidio. Provava fastidio, era uno spreco di tempo e risorse.
Aprì gli occhi e una lama di luce proveniente da una finestra olografica alla sua destra gli trafisse le retine costringendolo a riprovare qualche minuto più tardi quando si fu abituato alla luminosità dell’ambiente.
Un sottile azzurro decorava le mura fino a metà parete dove il bianco prendeva il sopravvento riempendo il soffitto. Non c’era nulla di appeso nelle pareti di fronte a se’. Alla sua sinistra un letto vuoto e dei macchinari, delle flebo. Non era una cella stavolta. Non era nemmeno la cava, né il brullo scenario dove aveva chiuso gli occhi. Un ospedale. Sì, era in una sala di ospedale, di qualche tipo.
Provò a muoversi di nuovo e nuovamente sentì le sue braccia pesantemente frenate da soffici cinture che gli impedivano di strappare la miriade infinita di cavi e tubi che lo collegavano a chissà quale diavoleria.
Immobile. In trappola. Il suo respiro si fece più rapido a quel pensiero, il suo cuore iniziò a pomparlo di energia pronto ad una fuga, ad una battaglia contro chi o cosa lo teneva lì contro la sua volontà.
Eppure il peso sul petto si era fatto da parte. Riusciva a respirare, con aiuto certo, ma era libero di espandere il petto. Lo sentiva vibrare ad ogni respiro, come se ogni muscolo stesse lottando per quella piccola conquista urlando con del dolore soffuso ad ogni respiro.
Di quanto anestetico lo avevano imbottito?
La testa era così pesante.
Chiuse gli occhi.
E riprese a volare.